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Uso delle erbe nella tradizione - Erbe e tradizion


By ddm - Posted on 19 February 2010

Ti racconto una storia

Ero a letto con la febbre e la nonna mi assisteva. Quando mi svegliavo mi diceva: “Stai buono, piccolo, che ti racconto qualcosa di una volta”. E così iniziava.

“Eravamo tanti in famiglia: mio padre, mia madre, la nonna, la zia non sposata e sei bambini, cuattro femmine e due maschi. Ogni giorno c’era qualcosa, una disgrazia, un dovere da svolgere, uno scherzo. Ora ti racconto: la nostra era una famiglia grande come tante qui da noi. Mangiavamo tutti insieme e tutti dovevamo aiutare per fare i vari lavori. Mia madre coltivava i campi, gli orti, allevava galline, conigli, la mucca e il maiale e ognuno aveva sempre calcosa da fare. Andavamo a fare e a prendere legne. Mio padre usava l’ascia e la sega grande, noi portavamo i pezzi e la madre con la zia li mettevano insieme. La sera, ci trovavamo qualche scheggia di legno infilzata, prima di andare a dormire, la nonna ci fasciava con un poco di resina che di notte lentamente toglieva la scheggia e il giorno dopo tutto era a posto. La vigilia di San Lorenzo (patrono del Paese) eravano tutti in agitazione perché aspettavamo che qualcuno ci pagasse la sagra. Mia madre lo sapeva e dopo cene ci preparava una scodellona di camomilla così era sicura che avremmo dormito tutta la notte senza ”consumare le lenzuola”. A Natale si uccideva il maiale e lo si preparava: c’era tanto lavoro per tutti ma dopo era bello anche mangiare.

Mio padre mangiava troppo e si sentiva un peso sullo stomaco. La nonna iniziava: “Acqua, pepe e sale guarisce ogni male”. Mia madre, arrabbiata, gli dava  un bel bicchiere di genziana o di assenzio e lui digeriva. Intanto la nonna borbottava e noi ridevamo perché ogni anno era la stessa cosa. La nonna, a vederci ridere iniziava ad avere male alle anche, giù per le braccia e le gambe e dietro la schiena. La zia che aveva messo sotto alcool i fiori di arnica (Arnica montana) massaggiava la nonna finché si addormentava, ma quando si svegliava iniziava a tossire e diceva che stava morendo. La zia non perdeva mai le staffe e cuoceva nell’acqua poche foglie di salvia con un bel po di zucchero e la nonna  si riprendeva. Mia madre sembrava che fosse nata con il mal di denti e frequentemente la vedevi girare intorno alla tavola col la mano sul viso, Quando aveva molto male si cuoceva un pugno di semi di lino nell’acqua, faceva ispessire e usava l’impiastro avvolto in un canovaccio sul viso fino a quando l’ascesso scoppiava.

A noi, invece, faceva gli impiastri utilizzando latte, pane e zucchero così non ci spellavamo la pelle del viso. Quando il viso non era gonfio si mettevano due gocce di grappa nel dente o un chiodo di garofano e la maggior parte delle volte si stava meglio. Il pomeriggio non vedevamo l’ora di andare di fuori a giocare e quando tornavamo a casa uno o l'altro aveva la caviglia gonfia e tanto male. Mia madre metteva nella gerla quello che si era fatto male e lo portava a Prou da un uomo che tirava i nervi. L’uomo tirava da far piangere, dopo frizionava con la grappa o con il borotalco e alla fine metteva della stoppa con chiara sbattuta e legava stretto. Mia madre il giorno dopo faceva impacchi di acqua e sale o di malva. La zia sapeva che noi ragazze cominciavamo a guardarci intorno per cercare un fidanzato e cercava di accontentarci: ci lavava i capelli con l’aceto o con la coda cavallina (Equiseto) così diventavano lucidi ed i pidocchi non ci infestavano. A me che avevo molte lentiggini e piangevo perché i miei fratelli mi canzonavano dicendo che avevo sempre mosche sul viso, mi preparava un decotto di ortica che mi faceva applicare la sera per anni .. ma le lentiggini le ho ancora ma non piango più.

Durante l’inverno tutta la famiglia usava il Grasso di Tasso per i geloni che venivano a forza di slittare sulla neve con i piedi bagnati, con il decotto di salvia e miele per le infiammazioni, coi fumi di incenso per i calazi;  con i fumenti di ginepro, di lichene islandico, di abete rosso, di malva, di resina di larice per la tosse stizzosa, con i semi di zucca e la corona di aglio per i vermi, perché eravamo tutti con occhi, pelle e capelli chiari. Tutto l’anno sui tagli funzionava molto bene la ragnatela e le foglie di fragola mentre per le botte si faceva un impiastro di bardana. Per mia madre avevamo sempre “riscaldo” e almeno una volta alla settimana ci dava dei bicchieroni di sambuco o di olio di ricino o di merluzzo o decotto di cicoria. Avevamo pori sulle mani e per toglierli si provavano varie cose: la rugiada del mattino, le bave delle lumache, il filo di seta per legarli, la pellicola della cipolla. Di solito passavano ma sapevamo che tornavano. In primavera ed estate tornavamo allegri a saltare come caprioli ed ogni posto aveva la sua merenda.
 
Storia fatta dalla maestra Corinna De Meio con i bambini  della IV elementare di Lozzo di Cadore nell’anno scolastico 1997-1998.

 

Te conto na storia

Ero nte l lieto con la fiora e la noma me vegea. Cuanche me desedeo, la me diesea: “Sta bon, tuto, che te conto algo de na ota”. E cossì la tachea.

“Ereone tante n famea: l pare, la mare, la nona, la nene che no se avea maridou e noi sié tosate, cuatro femene e doi omin. Ogni dì era una: na descrazia o na funzion o na baronada. Ades te digo, la nostra era una fameona come tante ca da noi, magneone dute nsieme e dute doveone idase par fei n laoro. La mare tegnia cianpe, orte, pite, conice, la vacia e l porzel e dute avea senpre algo da fei. Deone a fei e a tole legne: l pare dorea la manera e l siegon, noi porteone apede i toche e la mare co la nene li ntasea. Da dadasiera, se ciateone calche ris-cia ca o là, niante de dì a dormì, la nona la ne fasea n bon tacon de rasa che pian pian de nuote l dovea giavà la ris-cia e l dì daspò duto era a posto come niante. La vigilia de San Laurenzo ereone dute n agitazion parché spieteone che calchedun ne pagase la sagra. La mare savea e daspò zena la ne parecea na scudelona de camamilia così la era segura che dormione duta nuote senza fruà i lenzuos.

Sote Nadal l pare copea l cucio e n on vegnia a fei su: era un grumo de laoro par dute, ma daspò era bel anche magnà. L pare magnea masa e l sientia peso su l stomego. La nona tachea: “Aga pever e sal guarise ogni mal”. La mare, ngrintada, i sportea al pare n bel goto de anziana  (Genziana maggiore) o de abisinzio e l pare … l parea dó. Ntanto la nona la borbotea e noi rideone parché ogni an era così. La nona, a vedene riduzà la tachea à avé mal nte le ance, do pa i braze e le gianbe e davoi la schena. La nene che avea metesto sote alcool i fior de arnica (Arnica montana) la sfreea pulito duta la nona finché i vegnia dó l poian, ma cuanche la se desedea la scominziea a tosse e la disea che la era davoi morì. La nene che no la perdea mai le stafe la i cuosea inte l aga n poche de foie de salvia (Salvia officinalis) con n bon tin de zuchero e daspò la i la fasea beve dó e la nona la se ncreea. La mare someea che la fose nasuda co l mal de dente e va non va, te la vedee dì n torno la tola con la man su l mostaz.

Cuanche no la podea pì la cuosea n pui de lin (semi di lino) nte l aga, la fasea nfisì e daspò la betea la papela nte na canevaza e la se la poiea su la ganasa fin che s-ciopea l aseso. A neautre, nvezi, la ne fasea le papele co l late, l pan e l zuchero, così no se speleone la ganasa. Cuan che l muso no era s-gionfo, se betea doe goze de sgnapa inte l dente o na broca (chiodo di garofano) e l pì de le ote se stasea meo. Daspò medodì no vedeone l ora de dì de fora a dugà e cuanche torneone a ciasa, o un o l autro avea na ciadia sgionfa e mal fin che asei. La mare betea inte dei l sacagnou e la lo portea a Prou da n on che tirea i nerve. Chel on l tirea che l fasea zigà auto, daspò l sfreea con la sgnapa o col borotalco e a la fin l betea stopa con la ciara de uou e l fassea strento strento. La mare l dì daspò la i fasea npachi de aga e sal o de malva (Malva selvatica). La nene la savea che noi femene vardaone belo nte orto e la zerchea de contentane: la ne lavea i ciavei co l asé o con la codamozina (Equiseto) cossì i vegnia biei lustre e i peduoge stasea a la larga.

Ió che ero piena de lintine e piandeo parché i me fardiei me disea che le mose  stasea senpre su l me muso, la me parecea n decoto de autria (Ortica dioica) e la me fasea bete su da dasiera .. par ane .. ma le lintine e ancora cà, anche se ades no piando pì. D inverno  la famea se  dasea da fei col gras de tas (Grasso di Tasso) par le buganze che ne vegnia a forza  de sta a slisase coi pes biandade, col decoto de salvia e miel par bonì, coi fume de incenso par dute e sora e i soteruó che ne capitea; fume de denevol, de lichen, de pezuó, de malvei, con l areà e lenga de bò par la tose fastidiosa; coi seme de zucia e la corona de ai pai verme, dato che ereone dute ciare de oce, de pel e de ciavei. Ma duto l an, sui tai, dea benon, la tela de taleren e le foie de frassona; contro le rebatude i ne fasea n pastrocio de foie de papolei (bardana).

Par la mare aveone senpre riscaldo e almanco n ota, n ciou de la stemana, era pronte i beveroi de sanbughei,scudele de oio de rizino o de merluzo e decoto de zigoria. Aveone i por su par le man e par giavali se proea de duto: le man bonora su l aguazo, le sbaee de i s-cios, leade co l filo de seda o scuerte co la pelesina de la zeula e par solito algo pasea, ma saveone che i tornea. Da insuda e d istade, torneone liegre a sautà come i carioi e se godeone a magnà duto chel che ciateone pai prà: ogni luogo avea la so marenda.
 
Storia fata da la maestra Corinna De Meio co i tosate de la IV de la scola de Loze nte l an 1997-1998.