Sabato scorso ha avuto luogo a Pieve di Cadore un convegno dal titolo Vivere di turismo in Cadore si può. In un successivo articolo di cronaca trovo riportata una frase che esprime un concetto giusto in modo sbagliato. E’ solo un caso che sia stata pronunciata dal sindaco di Lozzo, tale Manfreda, che, a mio parere, non ha mai primeggiato nella materia Turismo (pur essendo un asso tanto in materia rifiuti quanto in gestioni idriche Bim-Gsp). Ma non essendo il solo a ragionare in questi termini, ché si sente spesso il concetto ribadito nello stesso modo (sbagliato) anche da addetti ai lavori, varrà la pena soffermarsi sull’argomento e chiarire l’inghippo. La frase è la seguente (neretto mio):
«Dopo la perdita delle industrie», ha affermato, «al Cadore non resta altro che il turismo, che comunque è una ricchezza che almeno nessuno potrà mai delocalizzare»
Che il turismo non si possa delocalizzare non corrisponde al vero, tanto che i dati cadorini sui flussi turistici stanno lì a dimostrare che siamo da almeno 15 anni in fase di delocalizzazione. Noi, io e il mio verme solitario, possiamo dimostrarlo. Tutto nasce da una cattiva interpretazione di ciò che si deve intendere per “turismo“. Senza entrare nel dettaglio delle motivazioni di carattere culturale che spingono una persona a diventare turista, ciò che conta in questa sede è stabilire che, relativamente ad un ambito geografico, il turismo è sostanzialmente un flusso, il risultato aggregato delle scelte personali di ogni singolo turista.
Tali scelte, oltre ad essere determinate dal vissuto di ogni singolo, sono condizionate da fattori ambientali (le attrattive materiali ed immateriali) e da fattori strumentali (servizi offerti per rendere fruibili le attrattive). Il turismo è quindi l’effetto aggregato della decisione di spendere la propria vacanza in un dato posto presa dal singolo (o dal nucleo familiare), conseguenza di un intreccio di scelte condizionate dalla propria esperienza vissuta, dalle proprie aspettative, dai fattori ambientali propri del posto e dai fattori strumentali lì residenti.
L’unico elemento realmente non delocalizzabile sono i fattori ambientali e le relative attrattive che ne costituiscono l’ossatura, non certamente il turismo così concepito. In poche parole non posso delocalizzare le Tre Cime, il paesaggio, il clima, l’ambiente nella sua accezione più generale. Ma il turismo è flusso che può ridursi a zero anche in presenza di perle paesaggistiche di grande rilevanza se, per esempio, i servizi che devono rendere fruibili quelle perle non sono presenti o non sono all’altezza delle aspettative. Allo stesso destino si va incontro se altri luoghi (in concorrenza) riescono ad interferire con il vissuto dei decisori della vacanza (attraverso pubblicità, promozioni, marketing territoriale ecc.) intercettandone i bisogni e canalizzando verso se stessi la scelta di vacanza finale.
Quindi attenzione: non è vero che il turismo non sia delocalizzabile, lo è – eccome se lo è – anche se come conseguenza “passiva” (nel senso che non è l’operatore locale a spostarsi, ma il fruitore del luogo che lo fa). E per capirlo basta guardare i dati dei flussi turistici relativi al Cadore dal 2000 al 2012. Per questo si può dire con franchezza che un Centro Cadore che perde in 12 anni il 43% delle presenze italiane ed il 32,7% di quelle totali, quando vi sono territori limitrofi che nello stesso periodo sono invariabilmente cresciuti, è testimone e vittima di una delocalizzazione brutta e cattiva (bella e buona). Anche se è vero, sì è vero, che le Tre Cime sono ancora al loro posto.
Oggi il fare turismo è diventata l’arte di creare esperienze turistiche composite. “Ciò che il turista cerca non si può dire sia il luogo in sé, quanto l’esperienza di viaggio e di soggiorno che in quel luogo potrà vivere.”
Questo spiega ampiamente perché chi sa fare turismo può anche fare a meno delle Tre Cime di Lavaredo, delle “montagne più belle del mondo”, senza che nessuno si metta a piangere e disperare (tranne i sodomitici oops … i dolomitici).