Che volete, so’ ragazzi, ragazzi de città (…a cosa ci porta la diaspora dei cadorini lontani!).
Prima era “preparon panin“: dialettizzazione di prepariamo, o italianizzazione di parecion. Un errorino folcloristico, diciamo. Non suonava bene, era un po’ tirato per i capelli, ma poteva anche andare. Vedo ora che hanno provveduto con decisione alla correzione: benon. Tuttavia, se tanto mi dà tanto…
ci sarebbe anche Pradéle allora (anche accettando la grafia tutta minuscola). Pradéle, con la é (quella di perché). Magari i comeliani la pronuncerebbero istintivamente così, ma…
se proprio dev’essere, che sia pradèle
con la è
(regola n°34: se non sei costretto, e qui non lo sei, non usare l’accento)
Visto che ci siamo: n’ pradele sta per “in pradele”, sicché l’apostrofo, casomai, va prima non dopo la “n”: ‘n pradele (stessa regola per il successivo n’ tra, che comunque può fare parola a sé, ntra, senza apostrofo).
(ma anche qui, regola n°35: se non sei costretto, e qui non lo sei, non usare l’apostrofo)
Passi “da la siera”, ma sarebbe “da da siera” (anche “da de siera”). Detto questo, trovo poi simpaticissime quelle “k” (al posto del “ch”), fors’anche stravaganti, direi quasi etniche, mascolinamente celtiche. Approvo questa nota di colore, quasi una firma, un segno distintivo (anche se formalmente la cappa non esiste nella grafia ladina corrente, ma nessuno c’impedisce di usarla).
Con immutato affetto (non si vede ma, diversamente da quello usato nel titolo, questo affetto è con la “è”)
(mettendo da parte i formalismi e volgendo lo sguardo ai “significanti”, mi accingo a sollevare un ultimo dubbio di “genere”: Porteve davoi la femena… (senza trascinarla per i capelli, par di capire), non vi sembra che, pur esprimendo un genuino pathos ladino, possa avere un (pur recondito) connotato sessista? Sapete com’è, con le mutate sensibilità d’oggi…)