Non è giusto chiamarla artificiale. Il termine corretto è “programmata”.
La nostra neve, qui in Alta Badia, è fatta solo di acqua e aria. Niente additivi. Talvolta, per la neve più raffinata, usiamo latte d’asina. E le pompe, girano da sole, autonomamente, senza consumare energia, anzi, la creano.
E’ talmente non-artificiale che “lassù” (tofe non arifa neanche il tratore: vedi parte prima del sermone “naturalisitico”) noi ci mandiamo l’elicottero; ma non è proprio l’è-lì-cottero, è bensì un è-qui-lattero (le cui turbine sono alimentate da antimateria sudtirolese).
Anche il piscio (quel liquido giallognolo espulso dalle vie urinarie), in Alta Badia, non è piscio: è un catabolita azotato dalle note proprietà organolettiche.
(e comunque i titoli giurassici “We’re working for you!” e “We continue working for you” non li vedevo da una quindicina d’anni, da quando la Comunità Montana Centro Cadore fece esporre, ai lati della frana della Ruoiba, sulla Traversata del Centro Cadore, cartelli con la dicitura “Stiamo lavorando per voi”)
Ripartiamo dalla quarta amenità, che riguarda la strada che sale da Val da Rin, nei confronti della quale il gestore del rifugio Baion sottolinea che:
Non basta avere un fuoristrada per affrontarla, serve anche una certa dimestichezza con la guida in montagna. Eppure, con un intervento di migliorìa generica, l’accesso diventerebbe più semplice per tutti ridando fiato alla vita di Pian dei Buoi, oggi a tutti gli effetti isolata dal resto del Cadore».
Che è una conferma a quanto scrivevo l’8 settembre commentando l’introdotta deroga al transito per Val da Rin:
Precisazione: col cazzo che bastano le 4 ruote motrici; dovete averla anche alta, la tutù, ché ci sono due punti strategici – due canyon – dove si corre il rischio di rimanere in trappola.
Quinta amenità: m’è sorta qualche perplessità su chilometri (e miglia nautiche) e sui tempi di salita. Detto diversamente, non si possono confrontare le mele con le pere. Ancora il gestore del Baion:
Per raggiungere Pian dei Buoi dalla Val da Rin sono sei chilometri che richiedono un tempo di percorrenza inferiore alla mezz’ora», prosegue Dino Nassivera, «niente a che vedere con la strada, seppur asfaltata, che sale da Lozzo:lì i chilometri sono 15 e richiedono un tempo di percorrenza superiore all’ora. Ipotizzare una sostanziale opera di miglioramento della strada sul versante della Val da Rin non è utopistico, sicuramente i tempi di realizzazione sarebbero inferiori e i costi minori rispetto a quelli che serviranno per sistemare la strada da Lozzo».
I sei chilometri cui si riferisce il gestore del Baion sono quelli di “strada bianca” della Val da Rin fino a Pian dei Buoi (5,3 km), quelli sui quali “col cazzo che bastano 4 ruote motrici” o anche, come abbiamo appena visto, “Non basta avere un fuoristrada per affrontarla, serve anche una certa dimestichezza con la guida in montagna.”
Ma, se guardiamo alla lunghezza d’insieme del percorso (per cercare di confrontare mele con mele), ce ne sono altri 4 asfaltati che da Ponte da Rin (nei pressi del bivio con la statale 48) portano all’inizio della strada bianca (e non è che si possano percorrere come a Le Mans), oltre ai 2.5 per arrivare al rifugio (da Pian dei Buoi). Quindi i chilometri, da Auronzo (Orsolina) al rifugio Baion, sono circa 12.
La strada asfaltata che sale da Lozzo fa più o meno 12 chilometri per giungere sull’altopiano e altri 3 (di strada bianca) per giungere al Baion, per un totale di circa 15 km. Riguardo ai tempi, i 12 km per giungere a Pian dei Buoi li percorro da anni abitualmente, senza ansia da prestazione, in circa 26 minuti (16 minuti per giungere a Tamarì e 10 da qui per sbucare sull’altopiano), diciamo 30 minuti (cioè una velocità di 24 km/h). Punto.
Sesta, questa volta ispirata da il Gazzettino, della serie “turisti fai da te?, no Alpitour? ahi ahi ahi…“. Il titolo dell’articolo è più roboante, “I furbetti dei divieti presi in trappola e poi stangati a Pian dei Buoi”, e di per sé introduce una nuova categoria sociale, quella appunto dei furbetti dei divieti (costola dei furbetti del quartierino). La vicenduola mi ha fatto tornare alla mente un pezzo dei Belumat: “vara vara, un campo abandonao! Capusi, tegoine, patate…”.
L’articolo nasconde alcune sub-amenità:
6a) “… i turisti che con tre auto avevano appena trascorso una giornata al fresco del Pian dei Buoi.“; che turisti bastardi: loro al fresco di Pian dei Buoi (nonostante il divieto) e noi quaggiù piegati in due dal caldo torrido di questi giorni.
6b) “In pochi minuti una pesante ruspa ha risalito la stretta stradina; il mezzo poi è stato messo di traverso a sbarrare il rientro del gruppetto.“; stretta stradina (??) la Strada del Genio coi sui tre metri di carreggiata? Magari anche piccina-piccina? Stretta, inizia ad essere la strada della Boa, non quella del Genio!
La stradina (piccina-piccina) ha tuttavia consentito il passaggio della “pesante ruspa” (vecchio tipo: adesso le fanno in carbonio e sono molto più leggere); pesante, la ruspa, ma piccina anch’essa se, per sbarrare il rientro, l’hanno dovuta mettere di traverso (delle due l’una: o la stradina non è così piccina-piccina, o la ruspa è un po’ piccolina: una ruspettina?)
6c) “«Abbiamo agito con leggerezza», hanno ammesso alla fine mentre i militari compilavano i verbali.“; quindi solo “alla fine” hanno ammesso la leggerezza: oltre ad essere bastardi, anche stolti, questi turisti
6d) “Per tornare a percorrere quella strada ci vorrà ancora del tempo, sono 8 i punti danneggiati con erosioni molto profonde,“; sicché le tre auto salite a prendersi il fresco, e poi ridiscese, lì dalle erosioni molto profonde hanno forse innestato la levitazione magnetica?
6e) “…i lavori di sistemazione non è chiaro quando finiranno“: vado matto per le costruzioni sintattiche “alla terrona”;
6f) “A nemmeno un mese da quel disastroso temporale, molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare.“; è un po’ come per le seghe: tu inizi a menartelo e ti convinci che “molto è stato fatto”, ma sai anche che “molto resta da fare”. Ed è indubbiamente la parte più interessante.
6g) “Dovesse capitare un temporale come quella sera?“; Più pilu per tutti.
Prima. Il sindaco di Lozzo, riguardo all’apertura della strada per Pian dei Buoi, ebbe a dire (era il 7 settembre): «In questo caso i tempi per riuscire ad arrivare in cima a Pian dei Buoi sono più lunghi, direi non prima di una settimana», e per questa sua intemerata – nonostante già dalla serata del 5 settembre nulla ostacolasse il raggiungimento dell’altopiano in auto – si meritò un plauso.
Fui frettoloso. Del resto, al riguardo avevo espresso la mia convinzione:
Insomma, non avrei scommesso un euro bucato sulla riapertura della strada in questo scorcio di stagione (e personalmente resto convinto che l’apertura alla viabilità ordinaria sia un azzardo), men che meno in una settimana.
Ma confidiamo in una prossima nonché lieta riapertura (cos’è una settimana in più o in meno rispetto all’eternità?).
La seconda riguarda gli accenti. Riferendosi alla strada di Val da Rin, si legge che essa “rappresenta l’unica ancòra di salvezza“. Capiamo il nobile intento di distinguere ancora (anche ora) da àncora, ma un accento aperto sulla “o” non s’è mai visto (anche se in qualche parlata regionale quella o viene pronunciata aperta). Regola generale (non solo per i corrieristi delle alpi): gli accenti che non siano canonici, lasciateli perdere.
La terza amenità riguarda le ostruzioni: “E lo fanno allungando l’occhio verso la Val da Rin che oggi, con la strada che da Lozzo sale a Pian dei Buoi ostruita in più punti dalla frana…“.
Ribadisco: la strada che da Lozzo sale a Pian dei Buoi era stata sgomberata da qualsiasi ostacolo (vedi link già segnalato), quindi liberamente percorribile dalle auto, già dalla serata del 5 settembre, ad opera dei Servizi forestali della Regione (ai quali, nel tardo pomeriggio, s’era aggiunta la pala del comune presso la Boa). Quindi: ostruita certamente no. Ma, ovviamente, neanche sicura, tant’è vero che è poi stata prontamente chiusa al traffico.
E fateje fa ncora st’ultimo chilometro sul bus a sti sguatteri de omini! Così se posseno presentà su ar refugio senza na perla de sudore, tutti belli npomatati come n cocco de mamma…
(per reciprocità, la prossima settimana il giro s’inverte: Tre Cime-Venezia con treno, bus e kayak al seguito; ci si trova tutti a Poveglia a sgranocchiare frittura)
(terza breve precisazione leggendo qua e là il pieghevole della “Strada panoramica delle Tre Cime”: qui la prima parte del post e qui la seconda)
Dice ancora il pieghevole che:
“Nei pressi della Forcella Lavaredo, c’erano due lapidi, collocate nel 1700, raffiguranti il leone della Serenissima Repubblica di Venezia e i gigli di Maria Teresa d’Austria che costituivano l’allora confine di Stato”.
Le lapidi erano davvero poste nei pressi della forcella Lavaredo, incastonate – più precisamente – nella roccia alla base della Piccolissima: anzi, meglio, della Minima. Ma anche riguardo alla data di collocazione degli stanti, così erano chiamati i termini posti a definire la linea di confine tra i due stati, si può essere leggermente più precisi (la sanno anche le marmotte del Pian di Lavaredo, che si tramandano quella data di generazione in generazione).
Lo stante numero 12, quello alla base della Minima, fu collocato nel 1753 (insieme a tanti altri in altri luoghi…), anno inciso sopra le lapidi (sparite nel corso della Grande Guerra, di esse si distinguono solo le nicchie dov’erano incastonate), insieme ad una croce, alla lettera L e al numero dello stante, il 12, il tutto colorato in rosso e leggibile ancor oggi.
Ma, per la precisione, “nei pressi della Forcella Lavaredo” c’erano altre due lapidi (o scudi), costituenti lo stante n. 13, poste sul lato est della forcella (“dirimpetto” allo stante n.12), alla base della parete della Croda Passaporto (leggermente a sud dell’entrata della galleria del Passaporto). Anch’esse sparirono durante il conflitto ed oggi, dello stante, si possono osservare le nicchie, il numero 13, la croce e il “millesimo” 1753 (la lettera M, invece, non fu mai incisa).
(foto sferica alla base della Minima, sotto lo stante n.12, “nei pressi di Forcella Lavaredo”; eventualmente zoomare per ingrandire)
(al rif. Lavaredo, seduto davanti ad una weiss in bottiglia, ché quella alla spina non c’era più, leggendo qua e là il pieghevole della “Strada panoramica delle Tre Cime”: qui la prima parte del post)
Poteva essere dipinta come una leggenda, come una convinzione radicata nel lontano passato, così da indurre nel lettore un sorriso benevolo. Da come è invece stata posta, sembra proprio che ci sia qualcuno che ci crede.
Si tratta della linea di confine tra i comuni di Auronzo e Dobbiaco che passa per la cresta delle Tre Cime. Dice il pieghevole che “la linea di demarcazione è tuttora controversa“, ma noi – umilmente – non ne abbiamo notizia alcuna (non per questo luogo). Dice inoltre che:
C’è chi sostiene che, essendo le cime strapiombanti sul versante di Dobbiaco, se si traccia la linea perpendicolare dalla cima ai ghiaioni sottostanti, la così detta “goccia d’acqua”, anche le pareti rivolte a nord e le loro basi apparterrebbero ad Auronzo.
Una fervida immaginazione, ed una più forte auronzicitàda rivendicare con fermezza.
Ma correndo il confine sulla linea di cresta, sullo spartiacque, è evidente – anche ricorrendo all’immagine delle pareti nord che compare a fianco dello scritto – che la “goccia d’acqua” cadrebbe ben più arretrata rispetto alle basi delle pareti. Se qualche dubbio – lì per lì – si può avere per la Grande, non v’è certamente dubbio alcuno per la Ovest, la cui cima (e spartiacque) è fortemente arretrata rispetto alla sua base.
Ma anche immaginando, per assurdo, che un ipotetico antro naturale alla base della Grande possa spingersi ben oltre la linea della “goccia d’acqua”, con quale buon senso si potrebbe pensare che quel territorio sia auronzano se, per giungervi, non avremmo altra via che calpestare quello doblacese? Non sarà forse la naturale morfologia del territorio a definire, più sensatamente di quanto non possa fare una proiezione a “goccia d’acqua”, le aree di confine?