PROFILO DI GIOVANNI FABBIANI, GRANDE STORICO CADORINO
di Giuseppe Zanella
Dell’eclettico Prof. Giovanni Fabbiani, eminente storico cadorino, molti hanno scritto tratteggiandone la notevole figura e tessendo le lodi sia delle virtù private -uomo, marito e padre esemplare- che delle virtù pubbliche quale studioso, prolifico scrittore, uomo di cultura e di scuola, amministratore, politico e militare tutto d’un pezzo, cultore dell’amore di Patria e dello ‘sviscerato’ amore per la terra d’origine, la piccola patria cadorina. Anch’io mi accingo a scrivere di lui partendo però da una angolazione e da un incipit diverso: quello della conoscenza diretta del personaggio cui rimasi legato, nonostante la differenza d’età, da un vincolo di stima, ammirazione ed affetto e da profonda amicizia di cui egli mi onorò nei miei anni di dimora bellunese e poi durante le belle estati cadorine degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Il professore era nato a Lozzo il 2.3.1897, primogenito di Salvatore Fabbiani e di Maria Graziosa Baldovin Monego. Il padre era giunto a Lozzo nel 1884 proveniente da Laste di Rocca Pietore, al seguito della benestante famiglia Pellegrini stabilitasi in paese nel 1876 (il capostipite, Giobatta, era un imprenditore di valore, che a Lozzo avviò un emporio per la vendita di generi alimentari e prodotti di ogni tipo per la casa e per le attività artigiane di qualsiasi natura, aprì un negozio di erboristeria e fondò una delle prime farmacie cadorine, impiantò poi attività di commercio di legname avviando una segheria, per quei tempi, all’avanguardia).
Salvatore era uomo intraprendente, sagace, intelligente e volitivo e rimase al servizio della ditta “Giobatta Pellegrini & figli” giusto il tempo, come suol dirsi, per “aguzzare l’ingegno”, impratichirsi nelle attività commerciali e tecnico-amministrative e poi, conosciuta la futura moglie (tra l’altro, sorella di un ‘maggiorente’ del paese -Melchiorre Baldovin Monego- la qual cosa, magari, non guastava), convolò a giuste nozze e, nel contempo, fondò con il cognato una attività bancaria (sportello unico). Dal Comune, con la sua proverbiale intraprendenza, acquisì poi l’appalto di esattore delle imposte e tasse comunali, consolidando così la posizione economico-finanziaria sua e della famiglia appena formata.
Nel 1897 nasce, come già detto, il primogenito Giovanni, oggetto del nostro odierno profilo. Ma il 30.5.1903 la signora Maria Graziosa venne a mancare dando alla luce il secondogenito Grazioso, lasciando così il giovane vedovo solo con un figlio di appena 6 anni ed un neonato da accudire. La vicenda umana di quest’ultimo meriterà un inciso ed un riferimento significativo che metta bene in evidenza il dramma che la famiglia vivrà nell’infausto anno dell’invasione (1917-1918). Ma torniamo all’attualità del nostro racconto. Dopo qualche tempo, Salvatore Fabbiani contrae nuovo matrimonio con Marianna Baldovin Carulli, di un ceppo contiguo a quello Baldovin Monego (1a e 2a moglie erano cugine). Gli orfani troveranno in Marianna Baldovin una vera seconda mamma, che saprà educare i figliastri con molto affetto e spiccata sensibilità.
Il giovinetto Giovanni dimostrò subito versatilità e propensione allo studio e venne pertanto iscritto alle Magistrali di Padova, dove si diplomerà nel 1914. Subito ebbe inizio la sua carriera di maestro elementare ed il suo primo impiego lo ottenne ad Auronzo, che raggiungeva quotidianamente in bicicletta, e dove avrebbe anche avuto la “ventura” di incontrare la futura moglie. E dal 1914 alla scuola egli seppe costantemente indirizzare la sua scrupolosa attenzione di educatore d’altri tempi ed i suoi sforzi al fine di far crescere i giovani assegnati alle sue cure all’amore di patria, rafforzando nel contempo nei discenti lo spirito di Ulisse, quello di “…seguir virtute e canoscenza” (dal canto XXVI° dell’Inferno dantesco).
Nel 1916 Giovanni Fabbiani si arruolò come volontario e, da ufficiale, combatté sulle Tofane e sul Carso. Sulla Bainsizza, in seguito alla rotta di Caporetto, venne poi fatto prigioniero ed internato a Cellelager (Westfalia). A seguito della disfatta di Caporetto e della occupazione austriaca anche dell’intero Cadore, Salvatore Fabbiani decise allora, come tanti altri in paese, di riparare con la famiglia (seconda moglie ed il figlio Grazioso), come sfollati, in territorio italiano libero (esattamente in Toscana). Un inconveniente occorso all’ultimo momento, gli impedisce però di unirsi ai due famigliari già saliti sulla tradotta in quel di Calalzo. Salvatore Fabbiani resta così da solo nella Lozzo occupata, mentre il figlio Giovanni risulta prigioniero e la moglie Marianna con il figlio Grazioso sistemati alla belle meglio lontano da casa.
Seguirà poi il trasferimento dei due congiunti in terra ligure, esattamente a Sampierdarena. Qui il ragazzo contrarrà la febbre spagnola e perirà in breve tempo. Il padre conoscerà il triste destino del figlio secondogenito soltanto a guerra finita, quando potrà finalmente riabbracciare la moglie ed il figlio primogenito rientrato dal campo di prigionia tedesco (e subito, come vedremo, inviato in Albania a presidiare quella terra turbolenta). Ma torniamo alle vicende riguardanti il nostro giovane ufficiale, personaggio eclettico oggetto del nostro profilo. Come si è detto, egli viene rimesso in libertà con la vittoria del 4 Novembre 1918, subito però viene inviato, quale ufficiale, in Albania, a presidiare quella terra oggetto di contesa fra le potenze vincitrici e sulla quale si indirizzavano anche le attenzioni italiane…
Solo sul finire del 1919 egli verrà finalmente congedato. Sposatosi con Elisa Larese (sorella dell’avv.to Giovanni e zia dell’avv.to Odorico), il Fabbiani ebbe tre figli: Grazioso (in ricordo della nonna e dello zio prematuramente scomparsi), Maria e Lorenzo. La carriera professionale del Professor Fabbiani andrà di pari passo con quella dello storico di livello e con quella di tecnico, politico e militare. Acquisito il diploma di laurea magistrale (abilitazione alla mansione di direttore didattico), il nostro assumerà nella scuola incarichi via via sempre più prestigiosi: fu, infatti, direttore didattico ad Auronzo, indi a Belluno; fu, infine, Ispettore scolastico a Feltre ed anche a Belluno ed ebbe anche competenze via via estese un po’ ovunque in provincia. In campo politico, va segnalata la assunzione dell’incarico di pubblico amministratore nel Comune di Belluno e di consigliere tecnico della Magnifica Comunità Cadorina. Fu anche socio dell’Istituto Veneto di Storia Patria. Nel contempo, va evidenziata la sua promozione a colonnello degli alpini, grado di cui andava particolarmente fiero. La sua imponente, ieratica figura ed il suo modo di porsi, soprattutto come portava il cappello bianco piumato, stavano a dimostrare tutta la fierezza dell’ex combattente e l’orgoglio dell’appartenenza al corpo alpino.
Ma dove maggiormente rifulsero le doti di questo uomo di valore furono le sue qualità di studioso, di appassionato cultore delle vicende della comune Piccola Patria, di questo suo sviscerato amore per la terra d’origine, di questa sua attività di ‘indagatore-ricercatore’, di questa sua vera passione di tramandare ai posteri l’epopea del popolo cadorino. E la sua bibliografia risulta particolarmente corposa e puntuale nel descrivere intere epoche e periodi interessanti i fatti salienti succedutisi nella vita della nostra terra e della nostra gente. Se poi si vogliono conoscere in modo approfondito i profili di altri cultori della storia del Cadore (parlo di mons. Ciani, di mons. De Donà, di Don Da Ronco, del Prof. Antonio Ronzon ed altri ancora) non si può prescindere dal Fabbiani, che di questi altri cultori ha ‘scoperto’ e ‘sviscerato’ ogni anfratto con la sua innata capacità di ‘topo d’archivio’, di analista e ricercatore indefesso e di catalogatore di vicende, fatti ed eventi, davvero unici.
Le opere del Fabbiani più conosciute si possono enumerare in parecchie decine, qui ci limitiamo ad elencare quelle più significative: “Saggio di bibliografia cadorina”, “Chiese del Cadore”, “Il Cadore nel 1866”, “Il Cadore nell’età napoleonica” e, soprattutto, “Breve storia del Cadore”. Tutte le opere testé elencate hanno avuto grande diffusione, basti pensare che, sino a poco tempo fa, erano reperibili presso la grande libreria di Piazza S. Silvestro in Roma (ora chiusa) e, soprattutto, si trovano tuttora esposte presso la Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio, sempre in Roma. Della corposa produzione del Fabbiani, conservo alcuni testi, quale gentile regalo personale dell’autore, in particolare ho appena finito di rileggere “Il Cadore nel 1866”, opera scritta, al solito, in modo piano, senza fronzoli, ma dalla quale traspare l’indole e lo scrupolo dello storico che sa far vivere gli eventi come fosse un cronista dell’epoca.
Nella sua lunga esistenza, il Professore fu insignito di varie onorificenze e premi. Piace al sottoscritto qui ricordare alcuni significativi riconoscimenti, espressione della ‘bellunesità’, ma soprattutto della ‘cadorinità’ dell’uomo di cultura e dello storico insigne: parlo soprattutto del premio S. Martino ottenuto nel 1976, di una Pubblicazione a suo riguardo, curata dal Direttore de “Il Cadore”, Serafino De Lorenzo, del 1975 ed infine del premio ANA-Cadore, assegnatogli dalla Ass.one Nazionale Alpini-Sez. Cadore nell’Ottobre 1985.
Concludo questo mio ‘ritratto’ di cotanto personaggio con alcune rievocazioni, come sopra preannunciato, di carattere personale. Come lozzese, ebbi l’onore di godere della sua amicizia con una frequentazione sia a Belluno che, estiva, in Cadore. Sovente intravedevo il Professore al Manin, ma soprattutto al Deon, dove, puntuale come un orologio svizzero, egli arrivava alle 16,30 e si assideva ad un tavolo riservato, per il rito del ‘filò’ con l’immancabile tè ai pasticcini, assieme ad alcuni docenti ed amici (ricordo il Preside Ing. U. Bracalenti, alle volte ospite anche a Lozzo, il Prof. Dino Zaglia, amico di papà e mio ‘tutore’ scolastico data l’assenza del mio genitore in città, e poi il Prof. Giovanni Cocuzza ed altri ancora). Ed al rito del tè anch’io alle volte partecipai perché invitato dallo ieratico interlocutore.
A Lozzo, poi, in estate, nella tarda mattinata, la sua imponente figura troneggiava sulla piazza centrale, giusto all’imbocco della stradina che conduceva alla sua avita dimora. Egli stava costì od in attesa di alcuni ospiti oppure a dialogare con il cugino di mia madre, Antonio Piazza, dimorante a Pontedera ma pure lui immancabile habitué del paese nei mesi estivi. E spesso facevo salire entrambi sulla mia fiammante Fiat 128 per recarci in loc. Naro od a Vialona a fare lunghe, ossigenanti passeggiate nei boschi. Erano queste le circostanze in cui meglio si appalesava l’uomo ed il cultore della storia locale. A molti Giovanni Fabbiani incuteva soggezione in quanto, ad una valutazione superficiale, egli appariva, meglio, dava l’impressione di essere, burbero e piuttosto asciutto, ma non era questa la vera caratteristica dell’uomo; sotto quella apparente ‘asciuttezza’ di modi si nascondeva infatti un uomo affabile, estroverso e simpatico e ciò appariva evidente non appena si entrava in una certa cordialità e confidenza e si instaurava un dialogo proficuo.
Personalmente, io non ho mai provato alcuna soggezione parlando con un tale personaggio e posso tranquillamente affermare che chi lo considerava burbero forse non conosceva a fondo l’uomo ed i suoi indiscutibili pregi; egli sapeva infatti fugare nel suo interlocutore queste fallaci, primitive impressioni facendo leva sulla sua spiccata sensibilità, sulla sua profonda umanità e vastissima cultura. Ricordo come nelle passeggiate a Naro ed a Vialona egli sovente si fermasse lungo la strada di Longiarin per impartire, a me ed al cugino Piazza, alcune spicciole lezioni di cultura locale. Giunti, ad esempio, al col de Tamber, egli ci parlava del benemerito maestro Barnabò che qui, e nell’intera zona, fece effettuare, a sua spese, degli scavi che portarono al rinvenimento di importanti reperti di epoca romana e pre-romana, a testimonianza dell’esistenza di un presumibile punto di osservazione militare (ruderi di un fortilizio, ora del tutto scomparsi) e di un piccolo insediamento abitativo. I reperti, ci diceva il Professore, per fortuna vennero catalogati e fotografati ma andarono poi perduti durante le razzie austriache alla sede della Magnifica Comunità nell’anno dell’invasione, ossia nel 1917.
Passeggiando, alle volte, egli ci intratteneva su alcune figure importanti di storici Cadorini. Ricordo come egli ci parlasse della vergognosa persecuzione subita dal mite Don Da Ronco, insigne sacerdote e studioso delle nostre memorie, originario di Pelos, letteralmente cacciato dalla Parrocchia di Lorenzago da alcuni facinorosi. Per non dire di quando il Fabbiani manifestava il suo rincrescimento per lo scempio effettuato delle vestigia romane sulla strada Claudia-Augusta-Altinate, vicenda oscura e ‘riprovevole’ della quale rimproverò duramente anche il mio genitore, all’epoca amministratore comunale ma ignaro del tutto della cosa e scevro da ogni responsabilità, forse imputabile ad esterne decisioni. Il professore, ottenute le doverose spiegazioni, ebbe però l’onestà intellettuale di formulare a mio padre le sue scuse, a mio padre che condivideva in toto il giudizio del professore su questo evento che entrambi reputavano alla stregua di atto ‘iconoclastico’ e vandalico.
Era veramente interessante intrattenersi con un uomo dalla così profonda cultura e dal periodare così smaccatamente tipico del cadorino, alle volte espresso perfino nelle forme più desuete. Ed a proposito del supposto aspetto burbero del carattere dell’uomo, mi sovviene ora il bel romanzo della sig.ra Luigina Zanella Da Ru, “Le Speranze di Elisa”. In questo bel libro, l’autrice esprime, in chiave ovviamente romanzata, l’esperienza della protagonista (lei stessa, essendo il romanzo di chiara natura autobiografica) quale insegnante di paese (pur nella finzione, si tratta proprio chiaramente di Lozzo) e descrive l’ansia per la visita di un certo ispettore scolastico, “considerato molto severo”.
Ecco la precisa descrizione che ne fa l’autrice: “(…) Le apparve un signore alto, magro, privo di cordialità. Era distinto, lievemente brizzolato. Il suo viso dai lineamenti piuttosto marcati, dava alla sua persona un’ulteriore severità. Elisa perse la parola, le sembrava che la lingua inciampasse, mentre la figura dell’ispettore si faceva sempre più alta e gli occhi più duri e minacciosi. Cercava di sfuggire il suo sguardo ed era lì, tesa davanti a lui. Fu un momento. La realtà la riprese. Si sentì fasciata da una corazza di orgoglio, gli fece vedere i suoi registri aggiornati, gli parlò dell’entusiasmo per i suoi ragazzi e dei proponimenti per il futuro. Ogni sua parola poteva giovarle o nuocerle…”. “(…)L’ispettore parlava poco, pesava ciò che diceva come il farmacista le sue polverine. Stette attento ad ascoltare”. Ma, senza tanti fronzoli, questo, alla fine, fu il giudizio dell’uomo, che evidentemente sapeva soppesare i suoi “polli” ed era obiettivo, sincero ed onesto: “Buona, aperta, intelligente. Promette di diventare una brava insegnante”. Per chi non lo avesse capito, al di fuori della finzione romanzata, si trattava proprio del Prof. Fabbiani. Al di là della immeritata nomea di burbero, che poi burbero non si era dimostrato neanche con Elisa (alias Luigina Zanella Da Ru), l’uomo era veramente un “hombre vertical” e chi lo conosceva a fondo lo stimava ed apprezzava profondamente e lo trovava aperto al dialogo, sensibile e dal (raro) sorriso accattivante. Grato e caro mi è il suo ricordo.