di Giuseppe Zanella
Erano gli anni ’60, anni ricchi dell’entusiasmo di noi ventenni, espressione di una generazione che per prima era uscita indenne dalle vicende della seconda guerra mondiale, generazione carica di aspettative e speranze in un domani promettente e felice. Si frequentava la canonica e la sala giochi posta sul retro dell’edificio, sala che fungeva però, in primis, quale luogo delle “adunanze” tenute dal parroco per noi membri del sodalizio di azione cattolica, ed anche locale destinato alle ‘lezioni’ di dottrina da noi impartite ai giovani ‘virgulti’ del paese. All’epoca, la sede della latteria sociale era stata trasferita nei moderni locali di Mezzavilla (l’attuale Via Padre Marino, sull’area dell’ex ‘Baracon’, un vetusto stabile già a destinazione multiproprietaria di stalle e fienili), mentre la vecchia sede di Piazza IV Novembre era ora nella disponibilità della parrocchia, in attesa di tempi migliori per la costruzione della nuova chiesa (in ottemperanza del noto voto del 1944) e della nuova canonica (che sarebbe stata ricavata, molti anni più tardi, dalla ristrutturazione del vecchio caseificio).
Don Piero, già sofferente, era in quel tempo coadiuvato da un cappellano, il bellunese Don Mario Sommacal. L’Azione Cattolica e le varie associazioni parrocchiali erano molto attive e … propositive. Tra le varie idee e programmi che circolavano in quel tempo nelle fervide menti giovanili guidate con mano ferma dal parroco, ci fu anche quella di utilizzare al meglio i locali al piano terra dell’ex caseificio al fine di far “rimembrare” alla cittadinanza tutta il “come eravamo”, sulla scia di un programma televisivo allora in voga, e di risvegliare nei lozzesi un ‘amarcord’ dei tempi andati, con le vecchie tradizioni ed il modo di vivere della nostra gente nei decenni e nei secoli passati. Insomma, l’idea era quella di creare una rivisitazione degli ambienti di vita e di lavoro dei nostri avi, di mettere in risalto un’epoca vissuta dai nostri progenitori senza soverchie pretese, comunque fra mille difficoltà e sacrifici, ma anche con quella serenità e tranquillità d’animo che era espressione di una vita sociale intensamente vissuta e priva di quelle spasmodiche tensioni che stavano già cominciando a far capolino negli anni ’60 e che avrebbero negativamente segnato i decenni successivi così carichi di ansie, angosce, nervosismi e deteriori individualismi.
Per realizzare il disegno, venne creato un gruppo assai motivato di giovani e meno giovani i quali, armati di ‘sacro’ zelo, passione, dinamismo e determinazione, studiò nei minimi dettagli l’allestimento di una mostra cui venne dato il nome di “Mostra delle arti e tradizioni popolari”. Il motore della iniziativa, l’idea originaria ed il necessario, entusiastico impulso fu, in ogni caso, tutto parto della fantasia e della inventiva di Don Pietro che, da valido organizzatore quale era, si mise all’opera, coadiuvato efficacemente dal cappellano e da un gruppo di giovani e ragazze che seppero avvalersi della collaborazione e della ‘sceneggiatura’ e ‘regia’ di chi, più anziano, era perfettamente in grado di ricreare una certa atmosfera fatta di costumi, ambienti di lavoro, abitazioni antiche, gestione e cura degli animali, illustrazione di occupazioni dismesse; in una parola, si trattò di realizzare la riproposizione integrale del modo di vivere di chi aveva calcato le nostre lande molto prima di noi.
La popolazione, fin da subito, manifestò entusiasmo e grande condivisione per questo progetto e rispose con una adesione totalitaria sia alle richieste di collaborazione e divulgazione dell’idea, sia alla ricerca e consegna di oggetti, costumi, arredi , attrezzi e mobilio d’epoca; in breve tempo si riuscì così a mettere insieme i vari elementi costitutivi della mostra il cui allestimento mise in luce una non comune sapienza arredatrice ed una ricostruzione storiografica davvero di buon livello. Ed il compiacimento della gente di Lozzo e dell’intero circondario si manifestò appieno con il successo riscontrato dalla frequenza di una insperata vasta platea di visitatori, sia ‘autoctoni’ che di turisti ed estimatori provenienti da tutta la regione e non solo. Le notevoli spese sostenute vennero interamente fronteggiate da contribuzioni che pervennero al comitato promotore sia da paesani che da forestieri.
L’insperato successo trovò concretizzazione anche attraverso l’opera dei mezzi di informazioni e da quelli tecnologici di divulgazione di massa che, giusto allora, stavano muovendo i primi passi e che si rivelarono assai utili e proficui, unitamente alla diffusione di depliant nelle varie APT del comprensorio e di quella delle foto scattate, in costume d’epoca, a qualche avvenente giovinetta sostenitrice. Della lodevole iniziativa si parlò a lungo in tutto il Cadore e nell’intera provincia quale esempio di lungimirante rivisitazione storica e socio-economica di un mondo che non meritava (e non merita!) certo di essere dimenticato, e ciò a testimonianza della vita grama e faticosa -ma anche genuina, sobria e schietta- che conducevano i nostri avi. Ed il raffronto tra quel tenore di vita e quello dei nostri giorni mette in risalto tutta la complessità, artificiosità e frenesia della esistenza dei giorni nostri.
La vita ‘tumultuosa’ che siamo costretti a vivere in quest’epoca di globalizzazione e di egoismo ed individualismo sfrenato manifesta, insomma, lo ribadiamo, un drastico contrasto con la serenità, semplicità e salubrità dell’esistenza condotta costì da chi ci ha preceduto. Ed il rammarico che molti provarono al concludersi di quella positiva esperienza fu dovuto alla impossibilità di trasformare quella esposizione in una mostra permanente, un vero e proprio museo etnografico. Tutto il materiale esposto, infatti, era dato da oggettistica messa a provvisoria disposizione da tante volonterose persone che, comunque, difficilmente si sarebbero private della titolarità di quei cari ricordi di famiglia. Per di più, va considerato che i locali in cui la mostra era allocata dovevano essere oggetto di futura ristrutturazione finalizzata al cambio di destinazione d’uso.
Ma, nonostante il rincrescimento per la mancata trasformazione in museo permanente, bisogna pur dire che quella originale idea fu foriera e propedeutica al generare, nella gente del posto, una vera passione e riscoperta del valore del passato, delle sue tradizioni, dei costumi e del tenore di vita dei tempi andati, tanto che da quella prima esperienza rievocativa -pur con i distinguo e le peculiarità proprie delle nuove realtà – nacque il progetto del museo della latteria e quello della risistemazione della roggia dei mulini (classico esempio di archeologia industriale): realizzazioni che dimostrarono e dimostrano ampiamente quanto nella nostra gente alligni la voglia di vivere i valori della tradizione antica e dell’epopea del popolo lozzese; il tutto, giustappunto, rappresentato da queste due strutture dalla valenza non solo ‘etnografica’ ma anche sociale, economica e di divulgazione e conoscenza a livello turistico-ricettivo e ambientale.