di Giuseppe Zanella
Ieri sera mi sono sintonizzato su Antenna Tre per seguire da Roncade la trasmissione commemorativa in occasione del 58° anniversario della immane tragedia del Vajont. Quest’anno la celebrazione ufficiale (almeno il suo clou) è avvenuta fuori dall’ambito locale per iniziativa patrocinata da vari Enti ed associazioni, in primis i comuni di Roncade, S. Biagio di Callalta e, naturalmente, Longarone. Trasmissione davvero ben riuscita, presentata da un ottimo veterano del buon giornalismo, che ha saputo coinvolgere vari testimoni e superstiti, suscitando forti emozioni e commozione in tutti i presenti e certamente nei telespettatori, specialmente in chi, come chi scrive, ha vissuto molto da vicino quella desolante e drammatica vicenda.
Tralascerò di fare la cronistoria della intera, lunga trasmissione commemorativa. Mi limiterò a parlare dei momenti più significativi quali, ad esempio, l’intervento del regista Renzo Martinelli, realizzatore del film “Vajont, la diga del disonore”, e soprattutto delle accorate, dolorose testimonianze di due superstiti, in particolare quella del maestro Gianni Olivier. La localizzazione dell’evento rievocativo-commemorativo è nata per sottolineare l’amicizia che ha legato i giocatori delle squadre di calcio del Roncade e del S. Biagio con gli allora giocatori della squadra del Longarone, molti dei quali periti nel disastro; il tutto rievocando due partite di calcio svoltesi proprio nel 1963, qualche tempo prima del disastro.
La chiesa di S. Cipriano a Roncade era gremita di autorità e popolazione coinvolta in questa tristissima ricorrenza. Ma veniamo all’intervento del regista Martinelli. Egli ha esordito citando gli articoli di Montanelli e Pansa che, all’epoca, parlarono di evento da attribuire ad un “fenomeno naturale”, non facendo minimamente cenno alle responsabilità dell’uomo, al suo bisogno di privilegiare il profitto, la ricchezza, l’ingordigia a scapito della sicurezza della povera gente che in quei borghi aveva casa. Martinelli, insomma, ha sottolineato le responsabilità di chi con il proprio operato ha “provocato” , questo sì, la reazione delle forze della Natura, la quale si è ribellata alla supponenza, forse anche alla incapacità dell’uomo di capire i limiti da porre al proprio operato per non scatenare fenomeni che, nella fattispecie, erano certamente prevedibili.
Ci furono, insomma, gli incapaci ma anche coloro che, forse, erano in mala fede, sapevano dei pericoli e tuttavia osarono sfidare le forze della Natura per abbietto tornaconto. Quello che poi ha molto colpito l’uditorio è stata la testimonianza straziante dei due superstiti, testimonianza che mi ha particolarmente toccato e mi ha spinto a scrivere questo mio intervento ricordando quello che, all’epoca, mi aveva e tuttora mi ha personalmente coinvolto come spiegherò in appresso. Il maestro Olivier, che molto ha scritto sul dramma del Vajont, ha ricordato le modalità con cui ha potuto, dopo circa tre mesi da quel terribile 9 Ottobre, rintracciare il corpo del fratello, già capitano della squadra di calcio del Longarone. Tutto è da ascrivere all’opera meritoria del fotografo Bepi Zanfron, che aveva fotografato le salme non riconosciute da congiunti o conoscenti, ed a quella altrettanto meritoria del Prefetto che aveva disposto la esposizione di tali fotografie in una sala della Prefettura.
E, sulla base di un anello che il fratello portava al dito, è stata possibile la identificazione certa del congiunto e dargli così degna sepoltura. Il rinvenimento avvenne proprio alla vigilia di quel triste Natale del 1963, ma Gianni Olivier dice che fu un Natale che consentì almeno la attenuazione di quell’ansia spasmodica accumulata nei mesi precedenti di intense ricerche. La evocazione della sala della Prefettura con le foto esposte mi consente ora di rievocare la mia analoga esperienza che ho fatto nello stesso periodo del Dicembre 1963, esperienza che mi aveva emotivamente coinvolto ed il cui ricordo è sempre vivissimo in me. Allievo della Catullo, negli anni ante il 1963, avevo come insegnante di lettere la dolcissima, brava e buona Prof.ssa Maria Antonietta Manarin, la quale mi voleva un gran bene, ed era per me quasi una seconda mamma.
Nel 1963 frequentavo l’Ist. Tecnico P.F. Calvi ma ogni settimana rientravo in Cadore per far visita ai miei. Fu così che la sera del 7 Ottobre incontrai in Stazione la mia ex insegnante e facemmo insieme il viaggio fino a Longarone, parlando, tra l’altro, delle ricorrenti voci che si susseguivano di pericoli di frane riguardanti il monte Toc. Mai avrei immaginato che quello sarebbe stato l’ultimo incontro con la mia apprezzata ex insegnate… L’indomani rientrai a Belluno ed il 9 mattina fummo svegliati da un compagno di classe che ci informò su quello che era successo nella notte… A scuola trovammo un clima di indicibile tristezza e sofferenza, con alcuni posti vuoti, compreso quello del mio compagno di banco, Cosma Renzo. Il preside Cocuzza (già mio docente alla Catullo) stava con noi cercando di consolarci e di informarsi sugli assenti. Nel caso di Cosma, si pensava che si fosse salvato perché ci aveva detto che quella sera sarebbe andato a Treviso dalla sorella per seguire la nota partita… Purtroppo non fu così…
Intanto, in quella funesta mattina, dalla finestra, vedevamo i camion militari che trasportavano nel vicino cimitero autentiche “cataste” di cadaveri. Fu davvero una terribile esperienza. Parlai con il Prof. Cocuzza della Sig.na Manarin e decidemmo di darsi da fare per saperne di più. Il papà della prof.ssa era dipendente di Cariverona, responsabile della esattoria/tesoreria, la mamma era una casalinga ed un fratello era ricoverato da lungo tempo in una clinica di Feltre per una infermità grave. Nessuno sapeva alcunché sul destino della insegnante e dei genitori. Si sperava che fossero ricoverati magari nei nosocomi di Pieve, Auronzo o Belluno. Le ricerche non dettero però esito alcuno. Finché sapemmo che era stata allestita la sala con l’esposizione delle foto dei poveri resti delle vittime. Un gruppo di medici franco-algerini era disponibile, trattandosi di esperti nella identificazione delle vittime di calamità di varia natura (c’era stato da poco il tremendo terremoto di Agadir). Accompagnai il preside in Prefettura (era il mese di Dicembre) e ci disponemmo alla visualizzazione delle innumerevoli foto. Fu una esperienza straziante.
Erano tre le immagini di altrettante vittime che, per conformazione fisica, potevano riferirsi alla nostra insegnante. Poi avvicinammo due medici algerini e dicemmo loro di alcuni aspetti fisici che potevano far propendere per l’una o l’altra soluzione. Determinante fu la descrizione di un intervento chirurgico che la Prof. Manarin aveva subito qualche tempo prima ed ancora più significativo fu il rinvenimento di alcuni oggetti a lei appartenuti e rinvenuti dagli esperti. La identificazione fu quindi possibile e la mia ansia si attenuò alquanto confortato dal fatto che almeno la mia ex insegnante avrebbe avuto degna sepoltura. Molti anni dopo, il maestro Olivier venne al mio paese per una conferenza ed io lo avvicinai chiedendogli notizie del fratello della sig.na Manarin del quale avevo saputo che ogni sabato attendeva inutilmente la visita dei suoi congiunti che settimanalmente lo andavano a trovare. Consideravo questa una tragedia nella tragedia. Olivier mi informò che il Dr. Manarin era purtroppo deceduto ormai da alcuni anni. Recandomi per ragioni di lavoro presso la ‘risorta’ Cassa di Risparmio di Longarone, potei, negli anni ’80, intravedere la targa posta all’ingresso dell’Agenzia con riportato anche il nome del papà della mia compianta insegnante.