il sindaco di Lozzo di Cadore: un tipo volitivo
Voglio, la caramella che mi piace tanto, e che fa du-du-dudu, du-du-dudu, dufour!
(oh, quanto ho sbavato in quegli anni di vulcanica preadolescenza pensando a Minnie; quando si portava il pacchetto di caramelle così vicino alle labbra, ahhh, era tutto studiato, anche allora, per farci fremere come foglie di betulla alla tesa brezza della primavera)
(si tratta, ancora, della lettura critica del bollettino comunale dicembre 2014, una delle poche distrazioni che ci concediamo in questa valle di lacrime; di alcune considerazioni legate alla locuzione “Cari cittadini di Lozzo” espressa dal sindaco nell’ultimo numero abbiamo già detto; benché quello che stiamo per descrivere sia un aspetto meno formale, vale per esso ciò che abbiamo già espresso per il primo: al compimento di un lungo anno intriso di un’attività amministrativa matta e disperatissima, gravida di fertilissime conseguenze per la comunità tutta, anche la forma, ne converrete, ha la sua importanza)
In passato, del vostro sindaco, abbiamo cercato di gettare luce da una parte sulla sua scioltezza linguistica e relative capacità retoriche, dall’altra sulla sua potenza di calcolo: ora ci tocca segnalare questo singolare aspetto volitivo del suo carattere (esercizio che, come gli altri, compiamo con il cuore colmo di cristiana benevolenza e purezza d’animo).
Il sindaco, nell’ultimo bolcom, verga un profondo atto di volontà:
Cari cittadini di Lozzo,
voglio augurare ad ognuno…
Ed è proprio qui che si fa largo il tratto del condottiero: non, per dire, “colgo l’occasione per porgere il mio augurio…“, nemmeno “desidero qui augurare…“, non se ne parla poi di “gradirei porgere…“, no. Voglio!
Voglio! Senza scampo. Imperativo.
Questo “piglio da colonnello”, tuttavia, non mi sembra granché adeguato alla situazione. Insomma, il vostro, a me pare, non si presenta con la grazia di un Don Diego de la Vega ma con lo sconquasso di uno sbadato sergente Garcia; non entra nelle nostre case in punta di piedi ma con la sguaiatezza di un ubriaco che oltrepassa le porte dell’ennesimo saloon. Voglio!
Io me lo immagino, animato da un continuo e vigoroso impeto, mentre affronta di petto (direi quasi h24) ogni problema che si presenta alla comunità, potenzialmente in grado di alterarne la tranquilla esistenza. Ed è questo impeto, io credo, che esonda anche nelle circostanze in cui sarebbe richiesta una maggior misura, un più delicato approccio.
Gli auguri si porgono, solitamente, non si danno. Si porgono affinché l’altro, anche idealmente, li possa accogliere, e, con ciò, dare la misura di averli fatti propri.
Lui no. Non li porge. Lui li dà, li vuole dare (“voglio augurare”). Assolutamente. E tu?
Niente. A questo punto te li tieni.