di Giuseppe Zanella
Anticamente, Lozzo era un paese composto da diverse frazioni allocate in luoghi ameni. Queste frazioni erano poste a nord, nord-est dell’attuale abitato; si trattava di ‘Vigo’, ‘Sale’ (attuale località di Sora-Sale), ‘Piazze de la Cros-Le Spesse’ e ‘San Rocco’. Ove per un motivo, ove per un altro, questi piccoli agglomerati abitativi presentarono, con il tempo, caratteristiche di scomodità sotto vari profili: logistico, carenze nell’approvvigionamento idrico, difficoltà nelle comunicazioni interfrazionali ect.. Gradualmente quindi, i nostri progenitori, invero assai ingegnosi e laboriosi, ritennero più utile ed opportuno spostare l’abitato sul contrafforte di rimpetto al colle di Revis, in prossimità e lungo il corso inferiore del rio Rin avendo così la possibilità di sfruttare l’abbondante presenza di acqua per i più svariati usi, in particolare per scopi ‘energetici’.
Sulle provvidenziali rive del torrente sorse così, piano piano, una miriade di opifici adibiti ad attività artigianali mentre, a ridosso di quella che oggi verrebbe definita ‘zona industriale’ (attuale roggia dei mulini), si costruirono le abitazioni, via via sostitutive di quelle abbandonate nelle antiche frazioni. Fu questo un ‘processo’ che maturò nel tempo e richiese secoli per il suo completo compimento. Va precisato che la frazione ‘Piazze de la Cros-Le Spesse’ fu investita e sepolta dalla frana del Monte Mizzoi del 25.1.1348, avvenuta in conseguenza del terrificante terremoto che provocò inenarrabili rovine e distruzioni nell’intero Cadore e non solo. Sembra poi che la frazione di ‘Sale’ sia stata abbandonata soprattutto a motivo della carenza d’acqua. Per inciso, va detto che in quella borgata ebbe i natali Mattia de Salis, pievano di Vigo dal 1437 al 1470 (vedi note del Baldovin in “Pagine di Storia ed Itinerari turistici di Lozzo di Cadore”, p. 174, seconda ed. 1983 per i tipi della Tip. Piave). Per concludere, la laboriosità ed inventiva dei nostri avi trovò, insomma, compimento nella creazione di un tessuto produttivo che, dalla borgata Da Rin e fino alla località di Ronzie, annoverò diversi mulini, tessiture della lana e della canapa, segherie, falegnamerie ed officine fabbrili, per finire con una centrale elettrica, antesignana della modernità per tutto il Comprensorio.
Dopo questo breve escursus storico, socio-economico e geografico sul nostro borgo al fine di inquadrare ambiente e tema del presente scritto, vengo a parlare, in modo specifico, di un opificio storico, dei tanti che trovarono allocazione lungo la sinistra orografica del torrente, sotto il colle di Revis, e dell’eclettico suo titolare a cavallo dei secoli 19° e 20°. Mi riferisco alla officina fabbrile che era posta all’inizio del paese, giusto accanto al ponte che scavalca il menzionato rio. L’ opificio era anche posta di cavalli ed i fabbri che ivi operavano, oltre a produrre attrezzi per lavori boschivi ed agricoli, esercitavano anche la fiorente e redditizia attività di maniscalchi. Da sempre l’officina era gestita dalla fam. Da Pra ‘Giazìn’. L’erede dei fondatori era un personaggio poliedrico, duttile e molto versatile, dalla viva intelligenza, dallo spirito faceto e dalla battuta pronta e mordace. Si chiamava Giuseppe, ‘Bepo’ per gli amici, aveva prestanza fisica, sguardo vivo e penetrante, manualità non comune. In decenni di lavoro, aveva saputo crearsi una solida nomea e popolarità nell’intero comprensorio.
Ma la fama dell’uomo non era fondata soltanto sulle capacità professionali ma si basava anche sulle doti di umanità e sulle sue proverbiali caratteristiche di risolutore di dissidi e conflitti di natura affettivo-sentimentale: le ragazze con tali problematiche, spesso ricorrevano al nostro per consigli e suggerimenti e Bepo sapeva spesso trovare soluzioni adeguate, quale psicologo ante litteram e padre spirituale sui generis. E le sue qualità ‘carismatiche’ erano dovute a vari fattori: la proverbiale arguzia unita al buon senso spiccato, la originalità del suo pensiero, la sagacia e ponderatezza nei giudizi che esprimeva con sicurezza sia che si trattasse di aspetti tecnici sia che i giudizi riguardassero le persone; generosa era poi la sua partecipazione alle varie attività al servizio della collettività. Ed il resto lo faceva il suo aspetto severo, ieratico, privo di fronzoli e smancerie. Come tutti i ‘genialoidi’, Bepo non era indenne da variazioni ‘umorali’ che, però, lungi dal farlo considerare soggetto dal difficile approccio, lo rendevano simpaticamente un po’ bizzarro e, paradossalmente, estroverso ed elemento di punta della Comunità.
Vari sono gli aneddoti che si raccontavano in paese sul suo conto. Negli anni della grande guerra e fino al Novembre 1917, Lozzo pullulava di soldati per via della nota linea difensiva Cadore-Maè (forti di Col Vidal e col Piccolo-Tudaio-Brentoni). Molti alpini facevano sosta da Bepo per sellare e ‘ferrare’ i cavalli o costruire o riparare ruote dei cariaggi ecc. Tra essi era abituale trovare un alpino romano, tale Giulio Giammaria, che bazzicava troppo spesso l’officina perché innamorato della primogenita del maniscalco, Angela. Avendo però un timore reverenziale di Bepo, il Giammaria non trovava il coraggio di richiedere la mano della innamorata. Bepo però, sornione, aveva capito tutto, osservava e meditava.
Venne alfine Caporetto e Giulio e l’intera armata dovettero lestamente ritirarsi. Ma il romano non dimenticò il suo amore montanaro e nel 1919, congedato, si presentò a Lozzo con maggiore coraggio, deciso ad ottenere la mano di Angela. Ufficializzata la richiesta, Bepo si limitò a dire: “Te piasela me fia?”. Traduzione simultanea della figlia a beneficio del romano. Ottenuta risposta affermativa, Bepo si rivolse allora alla primogenita: “Sesto segura dei to sentimenti?”. “Sì, pare”, questa la replica di Angela. Conclusione dell’uomo: “Se a voi va ben, va ben anche per me e par to mare”. Laconico, essenziale ma efficace il rito autorizzativo!!! I due si sposarono di lì a poco e fu matrimonio felice e longevo. Auspice i buoni uffici di Giulio, i suoceri ottennero udienza dal Papa in Vaticano in occasione del 50° della loro unione.
Altro aneddoto. Dalla unione di Bepo con Maria Baldovin erano nati sette figli: Angela, Gaspare, Melchiorre, Cristina, Giuseppe, Osvaldo e Rosina. Osvaldo, nelle intenzioni del genitore, avrebbe dovuto chiamarsi Baldassarre per completare la triade dei Re Magi. Ma Bepo, in questo caso, dovette chinare la testa e subire il veto (l’unico in tanti anni di matrimonio ben riuscito) posto dalla moglie. Tanto poté l’amore coniugale, nonostante le caratteristiche dell’uomo, non proprio incline ai condizionamenti…
Durante l’alluvione del 1966 l’officina, divenuta nel frattempo fabbrica di stampi per occhiali del nipote Bortolo, pur essendo la costruzione più esposta alla furia degli elementi (tronchi e detriti si abbattevano contro le mura in modo sinistro) rispetto ad altri più recenti opifici della zona, fu l’unica ad uscire indenne dalla tremenda prova. Il segreto? Le possenti, solidissime fondamenta gettate da Bepo, tali da sostenere l’impatto della furia delle acque in quella tragica notte. Altri opifici crollarono ma lo stabile Da Pra, pur essendo il più vetusto, seppe superare le difficoltà di quell’evento atmosferico avverso. Bepo, con la sua saggezza e la sua conoscenza del territorio aveva saputo prevedere… e provvedere di conseguenza.
Un giorno del primo dopoguerra, un turista veneziano si fermò presso l’officina per chiedere una informazione al nostro; mentre i due parlavano, qualche pietra si staccò da Revis e cadde rumorosamente in acqua. Il turista, meravigliato della imperturbabilità del fabbro, così si espresse: “Buon uomo, non avete timore a vivere qui con le pietre che vi ‘piovono’ così vicino?”. Al che Bepo subito replicò: “Caro signore, farebbe più impressione e paura se i sassi li vedessi andare in su, anziché cadere in acqua!”. Questo era il nostro Bepo Giazìn: saggio, imperturbabile, spiritoso, arguto ed anche un po’ bizzarro, come si addice appunto ad un genialoide.