di Giuseppe Zanella
Chiamulera Francesco fu Baldassarre, originario di Valle ma cittadino di elezione di Lozzo, fu imprenditore di grande rilievo agli inizi del secolo scorso, una figura eclettica ed eminente anche se, sotto certi aspetti, invero alquanto controversa. I lozzesi dell’epoca furono infatti, per la stragrande maggioranza, entusiasti estimatori di questo illustre personaggio per lo sviluppo socio-economico che egli seppe imprimere al paese ed all’intero comprensorio nei primi anni del 1900 con la creazione di una miriade di attività produttive le quali trasformarono il nostro piccolo borgo in una ’fucina a cielo aperto’, dando così lavoro all’intera popolazione attiva ed importando manodopera dai paesi contermini e non solo.
In paese, tuttavia, ci furono non pochi soggetti cui l’uomo venuto dalla Val Boite ispirava un misto di distacco e di antipatia per il suo straordinario dinamismo non scevro da prese di posizione ad alto tasso decisionista, tali da fargli assumere atteggiamenti ritenuti sovente autoritari (ancorché autorevoli), se non proprio arroganti. Che queste divergenti valutazioni fossero state originate da ammirazione per il successo dell’uomo e quindi da ossequioso e servile atteggiamento, magari volto ad ingraziarsene i favori, oppure fossero state determinate da invidia e gelosia per le non comuni qualità manageriali dell’imprenditore fattosi da sé, e magari dal timore che la azione del Chiamulera ingenerasse, a lungo andare, nocumento alla Comunità ed alle sue Istituzioni (delle diatribe giudiziarie, che videro in nostro, ora nelle vesti di attore, ora in quelle di convenuto, parleremo più avanti), è e resta cosa tutta a verificare.
Di questa disamina resta, comunque, un punto fermo: Lozzo non conobbe mai, né prima né dopo di lui, una figura di così elevata caratura imprenditoriale ed il paese non visse mai una frenesia industriale pari a quella vissuta negli anni che vanno dall’immediato periodo pre-bellico agli anni dell’immane conflitto ed a quelli immediatamente successivi.
Chiamulera era giunto a Lozzo in qualità di contabile della ditta Del Favero Giuseppe China. Uomo brillante, dinamico, di buone letture, intraprendente e sagace, egli seppe entrare in breve tempo nel ruolo di vero dominus e factotum della fiorente intrapresa Del Favero, che gestiva un emporio all’ingrosso ed al minuto di generi alimentari, chincaglierie, ferramenta ed ogni altro genere di articoli per la casa; inoltre la Del Favero operava pure nel commercio di vini e liquori e risultava perfino titolare di una distilleria per liquori tipici di montagna. Nel 1911 il titolare, Giuseppe Del Favero, ed anche la di lui moglie (1912) decedettero nel breve volgere di qualche mese, lasciando orfani in tenera età una schiatta di figli: Giovanni, Apollonio, Placido, Valentino, Angelo, Caterina ed Eugenia.
Tutore degli orfani venne allora nominato il Chiamulera a cui il tribunale dette anche la facoltà della gestione straordinaria della intrapresa. Le voci sui risultati di tale gestione sembrano essere state, all’epoca,assai controverse: c’è stato chi affermava che il complesso imprenditoriale si era andato via via consolidando, mentre c’era stato anche chi affermava che l’attività stesse languendo, dibattuta in una crisi di liquidità. Sta di fatto che, ad un certo punto, la gestione passò nelle mani dei figli del de-cujus, Giovanni ed Apollonio, divenuti maggiorenni, i quali, nel breve volgere di qualche anno, raggiunsero risultati lusinghieri consolidando i due settori operativi, commercio e fabbrica liquori, portandoli su posizioni di assoluta tranquillità in regime di quasi monopolio per l’intera area centro e nord-est cadorina.
Chiamulera allora uscì dalla azienda e si mise in proprio quale imprenditore del legno e quale impresario edile. In questa ultima veste egli assumerà alcuni importanti appalti e sub-appalti per i lavori impellenti di costruzione di infrastrutture, strade (di rilievo gli stralci per la carrozzabile Lozzo-Col Vidal) ed opere di difesa e logistiche nella zona di Pian dei Buoi, opere commissionate dalla Regia Amm.one Militare e rientranti nel progetto per la realizzazione della linea di difesa Cadore/Maé. Nel breve volgere di pochi mesi, la estesa area di Campopian, posta sulla sinistra orografica del Piave, già di proprietà della sig.ra Del Favero Maria ‘Pici’, prozia di chi scrive, venne acquisita dal novello imprenditore, che subito vi costruì enormi opifici, segherie, falegnamerie, magazzini legnami, depositi edili ect. ed ivi tosto impiegò centinaia di maestranze.
L’operatività riguardava dunque le opere urgenti di natura militare ma anche lavori per grossi complessi nazionali ed esteri. Importante, in quegli anni, fu la registrazione di un brevetto nel campo delle costruzioni, con l’approntamento di pannelli, fatti con un amalgama di legno e cemento, atti ad edificare manufatti e moduli abitativi di pregio con contenimento dei costi ed una maggiore versatilità sotto i profili ecologico e di risparmio energetico. Sistema di costruzione antesignano, che verrà ripreso giusto dalla recente tecnologia edilizia.
A questo punto, però, corre l’obbligo di fare cenno alle diatribe giudiziarie che videro contrapporsi il nostro all’Amministrazione Comunale di Lozzo in riferimento proprio ai lavori propedeutici alle opere in fase di realizzazione sul nostro pianoro per conto della Regia Amm.one Militare. La querelle si protrasse, tra alterne vicende, corsi e controricorsi, per diversi anni, esattamente dal 1913 al 1921 e la contesa (o ‘singolar tenzone’ che dir si voglia) riguardava la pretesa del Comune di essere indennizzato per i danni provocati dalle asserite usurpazioni, da parte dell’impresa del Chiamulera, in assenza di domanda autorizzativa da parte del ‘convenuto’, dei terreni prativi e boschivi dal medesimo Chiamulera utilizzati per la realizzazione delle opere commissionate dal Comando militare.
L’accusa mossa dal Comune riguardava l’allargamento abusivo di sentieri e mulattiere, sbancamenti e scavi per l’apertura di cave per approvvigionamento di pietrame, ghiaia e sabbia. Altra pretesa dell’Ente era quella volta al ristoro per la mancata fienagione e per “l’indebito arricchimento ottenuto dal convenuto a spese dello stesso Comune”. In sintesi, le ostilità vennero aperte dal sindaco pro-tempore Barnaba De Meio con l’ingiunzione al pagamento di ben Lit 431,38 (danni effettivi Lit 343,38 + Lit 88 per perizie ed altre spese). Il Chiamulera allora citò in giudizio il Sindaco ed il tesoriere Fabbiani Salvatore, avanti il pretore di Auronzo, affinché –come si legge nella memoria dell’avv.to patrocinatore Alessandro Vecellio- dovesse “sospendersi il procedimento coattivo iniziato con l’ingiunzione del 5.3.1913 ed accogliersi l’opposizione del ricorrente al pagamento delle spese pretese dallo stesso Comune”.
E da qui ebbe inizio un palleggio di ricorsi e controricorsi, provvedimenti della Pretura di Auronzo e del Tribunale di Belluno, perizie e controperizie di parte, perizie asseverate ordinate dalla Pretura e poi contestate nel merito per asserite anomalie ed omissioni. Per farla breve, nella memoria difensiva di parte attrice (Chiamulera) si asserisce che lo stesso imprenditore “dovette occupare qualche terreno di proprietà del Comune causando lievi danni ammontanti a Lit 50”, ciò secondo una perizia del geom. Gaspare Giacobbi. Ed il ricorrente si era subito detto disponibile a versare detto importo nelle casse comunali. Seguiva diniego del Comune e decisione del Pretore di nominare un nuovo perito nella persona del sig. Pio Monti, tecnico di Auronzo, la cui valutazione del danno veniva fatta ascendere a Lit 58,33. Il Comune decise allora di impugnare tale perizia ricorrendo al Tribunale di Belluno.
Questa la sintesi della memoria dell’avv.to Augusto De Bettin: “…Il Comune sostiene doversi riformare in ogni sua parte la appellata sentenza 25.9.14 e rinviare la causa al 1° giudice annullando la perizia pretorile ed ammettendo l’assunzione di prove testimoniali…”. Citati quali testi i sigg. Zanetti Pio, Marta Giuseppe, Baldovin Melchiorre, Zanella Luigi Moma. Di contro, ovviamente, l’avv.to Vecellio ed il domiciliatario avv.to Giovanni Bianco sostennero l’operato del perito Pio Monti e la non ammissibilità dei testi. Il Tribunale però accolse le richieste del Comune basandosi sull’assunto che il perito Monti non avesse tenuto nel debito conto i danni patiti dall’Ente e non avesse valutato l’indebito vantaggio trattone dal Chiamulera; ciò in virtù del principio giuridico “del lucro cessante e del danno emergente”.
Infine, il Tribunale sostenne doversi esaminare tutta la questione della rimessa in pristino, per quanto possibile, dei terreni usurpati. Il Pretore pertanto, investito del nuovo dibattimento, cancellò con un tratto di penna la perizia Monti ed ammise le prove testimoniali su input del Comune e su quesiti posti dal patrocinatore di quest’ultimo.
Querelle infinita. La vicenda dovrà poi vedere in campo azioni defatiganti protrattesi fino al 1921 con esiti alterni. L’archivio Comunale, salvo errori, non sembra contenere l’esito della sentenza definitiva. De relato (la voce di alcuni vecchi del paese), lo scrivente ‘riporta’ che la vicenda sembra essere stata chiusa con la vittoria ai punti dell’imprenditore. Va però precisato che le somme reclamate dal Comune, anche fossero state, in ipotesi, integralmente ‘ristorate’, sarebbero state comunque da considerarsi soltanto una piccola parte degli oneri sostenuti per spese legali, spese di giudizio, perizie, onorari e parcelle di avvocati e tecnici, rimborsi agli amministratori e quant’altro. Questo a sostegno del detto che “vale di più una onorevole transazione extragiudiziaria che incaponirsi nell’adire le vie legali con testarda volontà di prevalere ad ogni costo”.
Chiudo però con una chiosa storicamente interessante. Chiamulera, pur essendo in lite con l’Ente, da ‘eminenza grigia’ e personalità eminente quale era, non disdegnò di accompagnare gli amministratori a Sottopiana in un momento tragico per la Comunità, quello di ricevere gli invasori e contribuire così, con la sua forte ed indiscussa autorità e per quanto umanamente possibile, a cercare di attenuare il fardello delle inevitabili vessazioni da parte dell’occupante sulla stremata popolazione. E l’invito a partecipare a quella non entusiastica accoglienza, gli fu rivolto dal sindaco dell’epoca (uno dei tre menzionati negli atti di causa), il Sig. Zanella Giobatta Valis.
Strano il destino di entrambi questi personaggi: il pubblico amministratore, accusato da alcuni lozzesi di collaborazionismo con il nemico (vedasi profilo redatto nel passato su queste stesse colonne [trattasi de “Il Cadore”, ndr]), ingiustamente incarcerato, però mai processato; l’altro, l’imprenditore, oggetto di malevoli insinuazioni dello stesso tipo, pure mai, sembra, effettivamente provate.
L’azienda Chiamulera chiuse i battenti in seguito a dissesto, che, allora si disse, in parte essere stato dovuto a certe infedeltà di alcuni collaboratori. In viaggio di nozze ad Alessandria d’Egitto, visitando il porto della città, il nostro scoprì intere navi cariche di tavolame recante la provenienza dalle segherie di Campopian… La signorile magione dalla originale linea architettonica, già dimora del Chiamulera e sede degli uffici aziendali, venduta all’asta, venne acquistata dal sig. Giovanni Da Pra, il noto ‘Marco Polo’ nostrano, sul conto del quale venne pure tracciato, tempo addietro, un profilo su questo giornale [trattasi de “Il Cadore”, ndr].