Criticarium Itaglia
residui fiscali regione per regione e conti pubblici territoriali
Premessa: ho avuto modo di citarlo in più di un’occasione, anche per confutare le prese di posizione pressapochiste di quanti credono – fra questi anche qualche sindaco – che le province autonome di Trento e Bolzano godano di chissà quali privilegi nel quadro dei conti pubblici nazionali. Il vero privilegio – me è tale? – è quello di tenere per sé il 90% delle tasse che “sgorgano” dal proprio territorio, ma questa è storia ormai vecchia. Sto parlando di un articolo di Lodovico Pizzati pubblicato su noiseFromAmerika.org (nFa) nel maggio del 2010 che analizza la situazione dei residui fiscali regionali andando a pescare i dati dai Conti Pubblici Territoriali (CPT).
Nell’articolo originale i grafici a supporto della trattazione appaiono troncati (nella prima pubblicazione ciò non succedeva perché nFa utilizzava un formato liquido, successivamente cambiato in quello attuale) rendendo la lettura disarticolata. Vista l’importanza dei medesimi ho provveduto a ridefinire le dimensioni integrandole nel testo come si conviene. Approfittando della licenza CC con cui nFa offre i propri articoli, mi sono permesso di proporlo qui sul BLOZ per intero a beneficio … dei cultori dei residui fiscali regionali.
17 maggio 2010 • lodovico pizzati
Giovedì 13 Maggio diversi quotidiani hanno dato risalto ad uno studio della CGIA di Mestre riguardo il divario regionale tra tasse pagate e spesa pubblica ricevuta. I numeri hanno sorpreso: il Veneto che sborsa solo 6 miliardi in più di quanto riceve a confronto dei 42 miliardi della Lombardia; il Lazio che paga in tasse 9 miliardi in più di quanto riceve; la Toscana nella lista delle regioni sanguisuga. Io dico che i dati sono sballati e che la situazione è ben diversa. Ecco perché.
Nel sito dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese di Mestre non ho trovato i dettagli di questo controverso studio, ma solo una news tecnica che riporta le conclusioni (riassunte nel sommario e ricopiate dai giornali senza batter ciglio) ed un cenno metodologico. Rispettivamente:
Rispettivamente:
La stima è stata elaborata dall’Ufficio studi della CGIA di Mestre ed è relativa all’anno 2007 (ultimo dato disponibile) (*)…
(*)La metodologia usata in questa analisi prevede che le entrate siano depurate dai trasferimenti proveniente dall’UE e altre istituzioni estere, dall’alienazione di beni patrimoniali e dalle riscossioni di crediti; analogamente, le spese si considerano al netto di partecipazioni azionarie, conferimenti e di concessioni di crediti. Inoltre, i dati sono stati raccordati con la contabilità pubblica (deficit) e si è suddivisa la spesa per interessi che è stata ripartita sulla base della distribuzione della popolazione italiana tra le varie Regioni.
Il trafiletto non cita la provenienza dei dati (incominciamo male), ma data la data dei dati (2007) deduco che provengano dai Conti Pubblici Territoriali (CPT) del Ministero del Tesoro, che verranno aggiornati per il 2008 non prima di Giugno 2010. I CPT si occupano di suddividere a livello regionale sia le entrate fiscali che la spesa pubblica sulla base di dati che iniziano nel 1996 e vanno sino al 2007. Credo ci sia un problemino metodologico con la collocazione territoriale della spesa pubblica, ma è sicuramente un lavoraccio molto utile ed un buon punto di partenza. I dati che tratterò nei grafici sono consultabili da chiunque accedendo alla loro banca dati (username: “cptguest”; password: “cptguest”).
Lo scopo di questo articolo, come del CPT e della CGIA di Mestre, è cercare di determinare il residuo fiscale di ogni regione. Per residuo fiscale si intende quanto una regione paga di tasse rispetto a quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Mentre è difficile sgarbugliare come la spesa centrale venga distribuita a livello territoriale, per le entrate fiscali la provenienza delle tasse è facilmente rintracciabile.
In questo grafico ho riportato le entrate fiscali pro capite (dati 2007) per ogni regione. Ho suddiviso le tasse in: imposte dirette (Irpef, ecc…), imposte indirette (IVA, ecc…), contributi sociali, e “altro” (che contiene una ventina di balzelli minori). Come potete vedere, per quasi tutte le regioni (salvo il Lazio) il rapporto tra queste quattro categorie di tasse è pressoché costante. Non è nemmeno sorprendente che le regioni più ricche (al Nord) paghino mediamente più tasse che le regioni più povere (al Sud). Se questo è dovuto al reddito più basso o alla maggior evasione, per i fini di questo articolo ciò non importa. Quello che importa è notare che l’unica regione anomala è il Lazio che paga pro capite più tasse di tutti. Guardando nel dettaglio è facile notare che questa anomalia è dovuta ad “altro”. Come mai? Andiamo a vedere cosa c’è in “altro”.
Capita spesso che, nella ripartizione regionale, le entrate fiscali riconducibili allo stato centrale (vendita di beni, ecc…), a prescindere dalla regione nella quale sono state raccolte, vengano attribuite alla regione Lazio perché nella medesima c’è Roma ed a Roma ci sono i ministeri. Per rendersene conto ho selezionato, tra la ventina di tasse incluse nella categoria in questione, le 4 dove questa discrepanza è più lampante. Nello studio della CGIA hanno tenuto conto di una di queste categorie (come da loro citato: alienazione di beni patrimoniali), ma forse non le altre.
Poffarbacco, ma guarda guarda quante più tasse paga il Lazio, rispetto alle altre regioni, su redditi di capitale, vendita di beni e servizi, alienazione di beni patrimoniali, e altre entrate correnti! Pagano forse i cittadini laziali le tasse per i beni e servizi pubblici venduti dalla Puglia al Piemonte? Certo che no. Pagano forse i cittadini laziali le imposte sul reddito da capitale di tutte le grandi imprese (molte controllate dalla mano pubblica, anche se di forma legale privatistica) residenti fiscalmente a Roma? Certo che no. Sono forse a carico dei soli cittadini laziali i proventi che derivano dalle alienazioni di beni patrimoniali dello stato, da Lampedusa a Vipiteno? Certo che no.
L’attribuzione, dunque, è spuria: il prodotto di una metodologia contabile, non di un carico fiscale effettivo. Per un giusto paragone non si può attribuire alla Regione Lazio tali fonti di gettito fiscale (o assimiliato) che lo stato italiano percepisce (un’altra anomalia da spiegare sarebbero le altre entrate correnti dalla Calabria, ma questa la lascio a quelli più addentro di me). Per forza di cose, se vogliamo fare un paragone serio tra regioni, dobbiamo eliminare queste entrate fiscali di chiara provenienza extra-regionale dai dati della regione Lazio. E così ho fatto, portando il livello del Lazio, in queste quattro categorie, alla media delle altre regioni. Ecco aggiustato il grafico di prima:
È molto probabile che ci siano altre anomalie minori. Per esempio, una ditta potrebbe avere le fabbriche in Puglia e la sede a Milano (risulterebbe che le imposte sul reddito da capitale vengono pagate in Lombardia). È possibile che regioni con capoluoghi finanziari risultino pagare più tasse della vera media pro capite. Ma questo non è di cruciale importanza: il grafico illustra come le entrate fiscali regionali combacino abbastanza con la distribuzione regionale del reddito dichiarato.
È invece più difficile determinare la spesa pubblica per regione. Parte della spesa pubblica passa attraverso il bilancio delle amministrazioni regionali (Spesa Regionale) e delle provinciali e comunali (Spesa Locale). Fin qui non ci sono dubbi. Il grosso, però, è determinato ancora dalla “spesa centrale” ossia la spesa riconducibile allo stato italiano (difesa, ambasciate, ecc…). Non è ovvio come suddividerla per regione, ma il CPT del Tesoro ci prova. A fine articolo discuterò il loro metodo, ma per ora utilizziamo i loro dati.
Non sarebbe sorprendente se anche la distribuzione regionale della spesa pubblica coincidesse con quella del reddito (chi paga di più riceve di più). Ma questo non è vero per la spesa locale e regionale, mentre è molto debolmente vero per quella centrale: le variazioni regionali di quest’ultima sono molto, ma molto più piccole di quelle del reddito regionale per capita. Basta guardare le barre blù per rendersi conto che, anche per la spesa pubblica centrale, la correlazione con il reddito quasi non c’è. Se togliamo la grande anomalia laziale (che in questo caso sì che riceve quelle spese, grazie alla concentrazione in Roma delle dirigenze di tutti i ministeri, del Parlamento, eccetera) e la piccola anomalia friulana (una fetta sostanziale del nostro esercito è ancora stanziato lì) vediamo che la spesa pubblica centrale per capita oscilla molto poco da una regione all’altra. Insomma, lo stato italiano sembra spendere quasi uniformemente sul territorio nazionale.
Nei dati aggregati risaltano, inoltre, la presenza del Veneto in terzultima posizione (tra Sicilia e Puglia) e quella in prima della Val d’Aosta che riceve, per capita, molto più del resto. Quest’ultima è una ben nota anomalia, che s’inquadra in quella più generale delle regioni autonome “sussidiate”, come avevano notato Aldo e Michele nel loro studio di quasi due decadi orsono. È interessante notare anche la differenza tra Trentino-Alto Adige e Friuli-V.G. In quanto regioni autonome esse ricevono pressapoco lo stesso livello di spesa pubblica totale pro capite. Solo che per trentini e tirolesi essa passa in buona parte attraverso la spesa locale e regionale, mentre per i friulani arriva sottoforma di spesa pubblica centrale. Chi conosce la realtà triveneta potrà riflettere sulla differenza di servizi tra Trentino A.A. e Friuli V.G. ed interrogarsi sulla qualità della spesa pubblica centrale rispetto a quella regionale e locale.
Chiudendo un’occhio sulla metodologia adottata nel riparto regionale della spesa pubblica centrale, non ci resta ora che paragonare entrate e spesa per calcolare il residuo fiscale regionale. Facendo questo mi sono imbattuto in un secondo problema nei risultati della CGIA di Mestre: guardano solamente al 2007. Per farsi un’idea precisa della tendenza di lungo periodo è interessante guardare alla serie storica che inizia nel 1996. Eccola, regione per regione:
Mi è sembrato ragionevole suddividere le regioni in tre gruppi a cui corrispondono i tre diversi colori per la linea del residuo fiscale: a) le regioni in rosso, che ricevono sistematicamente molto di più di quanto paghino (residuo sempre negativo); b) le regioni in verde, che pagano di più di quanto ricevono (residuo sempre positivo, ed in crescita); c) le regioni in grigio, che pressapoco pagano quanto ricevono (residuo leggermente negativo, zero o leggermente positivo).
C’è da notare un’altro aspetto sorprendente. Secono i dati CPT le province autonome di Trento e Bolzano e la regione autonoma Friuli-V.G. non ricevono più risorse di quante ne paghino in tasse. Il residuo fiscale va pressapoco in pari: a differenza delle regioni ordinarie settentrionali loro hanno semplicemente la fortuna di potersi gestire le proprie risorse e finiscono per … tenersele. Insomma, il loro percepibile livello di benessere è maggiormente riconducibile alla gestione autonoma delle proprie risorse che non ad un trasferimento di risorse dal resto del paese (dato che il residuo fiscale è marginale).
Questa quindi è la vera mappa dei residui fiscali nominali pro capite basata su una media decennale:
Le regioni verdi sono quelle che danno costantemente di più del dovuto. I toscani, a differenza di quanto sostiene il documento della CGIA di Mestre, pagano ogni anno in tasse a cranio (neonati e ottuagenari inclusi) mille euro in più rispetto ai servizi che ricevono. Queste sono medie nominali sopra un decennio: mentre la mappa indica 2800 per ogni veneto e 3500 per ogni lombardo, i numeri in euro del 2007 sono 3900 e 6000 rispettivamente. Fosse un anno anomalo per solidarietà ai terremotati è un conto, ma avere un residuo fiscale a testa talmente elevato e sostenuto, si chiama colonizzazione e non solidarietà. Per il 2007, in totale, stiamo parlando di 20 miliardi per il Veneto e 60 miliardi per la Lombardia. Altro che i 6 miliardi dello studio della CGIA.
Come regioni bianche ho messo tutte le regioni che hanno in media un residuo fiscale inferiore ai mille euro pro capite. Questo perché è abbastanza vicino allo zero e potrebbe essere dovuto a errori metodologici. Qui troviamo sia regioni autonome che regioni ordinarie. Non ci sono grandi sorprese invece nelle regioni in rosso, a parte la Val d’Aosta (essendo piccola bisognerebbe indagare più a fondo a cosa sia dovuta tutta quella spesa pubblica) ed il Lazio (che, a differenza di quel che sostiene la CGIA, è una regione platealmente e sistematicamente in rosso).
Guardando i colori di questa mappa, possiamo concludere che lo sfruttamento delle regioni settentrionali è dovuto solo all’assistenzialismo al Sud? Non proprio. Per capirlo bisogna abbandonare l’analisi a livello pro-capite e considerare i conti territoriali a livello assoluto, ossia tenendo conto del numero di persone che abita in ogni unità territoriale.
Anche questo grafico si basa sui dati disponibili nella banca dati del CPT del Ministero del Tesoro. L’unica correzione fatta riguarda la rimozione, dalle entrate fiscali del Lazio, di entrate anomale chiaramente non riconducibili alla regione stessa (come descritto sopra). Data questa correzione, è interessante notare come il Lazio sia la seconda regione (dopo la Sicilia) che ha ricevuto negli undici anni disponibili (1996-2007) più di quanto abbia dato. Non solo questa conclusione è completamente opposta a quanto sostiene, sul Lazio, lo studio della CGIA di Mestre, ma rende anche palese che mantenere Roma e i suoi ministeri costa quasi quanto la Sicilia e ben di più di Campania e Puglia.
È da notare che, anche se le regioni meridionali sono in rosso, secondo i dati CPT il loro residuo fiscale negativo non spiega il dissanguamento delle regioni in verde, ma solo un 60% di questo. Nello stesso periodo (1996-2007) la Regione Lazio riceve da sola ben il 15% del surplus proveniente dalle regioni in verde. Le altre regioni (Liguria, Umbria, Friuli, Valdaosta e Trentino-A.A.) ricevono invece un totale pari al 6%.
E il rimanente 19%? Non è sicuramente spiegato da interessi sul debito pubblico perche’ questo è già contabilizzato e distribuito territorialmente. Non si capisce difatti perche nella nota sopracitata la CGIA dica di ripartire gli interessi sul debito alle regioni in base alla popolazione. Se è così stanno contando due volte, ed è forse anche per questo che i loro risultati sono inverosimili. Forse il rimanente se ne va in imprese semi-pubbliche come Alitalia, RAI, e Enel? Non proprio. Il CPT tiene conto anche di questo in una banca dati parallela chiamata Settore Pubblico Allargato (SPA). Quest’ultimo consiste delle imprese pubbliche riassunte in questo schema, tratto dal secondo capitolo delle note metodologiche:
Ho controllato il residuo regionale anche tenendo conto delle imprese pubbliche, ma ciò non cambia di molto i risultati (vi risparmio un’altra mitragliata di grafici per i dati SPA). La discrepanza pare sia dovuta alla metodologia applicata nei conti pubblici territoriali, ma l’ammontare mancante rimane per me un mistero.
E’ opportuno anche sottolineare che il CPT divide la spesa pubblica centrale secondo i flussi “finanziari”. Questo quadro, tratto dal primo capitolo delle note metodologiche, riassume il criterio. La spesa pubblica centrale viene ripartita a seconda di dove viene spesa, ma non a seconda di chi ne trae beneficio:
Se ho ben capito una concentrazione maggiore di caserme in una regione viene considerata come una maggior spesa pubblica in quella regione. Se il ministero dell’istruzione ordina centomila scrivanie da un mobilificio veronese, scrivanie da distribuirsi sul territorio nazionale, questo acquisto viene considerato come spesa pubblica nella regione Veneto. Esempio più estremo: se il ministero dello spreco ordina un panfilo (da ormeggiarsi in baia di isola esclusiva) ad un cantiere navale di Monfalcone, questa spesa viene considerata spesa pubblica a favore del Friuli-V.G.
Spero di sbagliarmi, ma se così è (come sembra essere) allora i divari fra spese ed entrate pubbliche regionali potrebbero essere ben più accentuati di quanto qui descritto.
Stati Uniti d’Italia: chi è che ha detto che il M5S non ha un’anima federalista?
Va detto che l’articolo che segue è stato postato due anni fa, il 9 dicembre 2010; per un movimento effervescente come il M5S due anni sono tanti. Comunque, io me l’ero letto a quel tempo e, come mi capita di fare per tutto ciò che desta in me vivo interesse, me l’ero “salvato” per poterlo poi facilmente reperire. E quel momento è giunto ora.
Mi ricordo che quando lo lessi lo trovai assolutamente normale come contenuti, l’eccezionalità era legata al fatto che il M5S non si era mai esposto precedentemente sul terreno del federalismo e dell’autonomismo in questi termini. Naturalmente, Grillo-Casaleggio possono aver gettato il sasso nello stagno per vedere che effetto faceva.
Da allora, da questa “splendida” fiammata, il movimento non si è più apertamente dichiarato su questo tema che, ovviamente, risulta molto sentito in tutto il nord. L’ultimo paragrafo, per quanto sia solo e semplicemente descrittivo, è comunque da incorniciare, se non altro per la “tensione emotiva” che – immagino – deve aver richiesto all’autore all’atto della sua stesura.
Stati Uniti d’Italia
Nello sfascio generale politico ed economico è scomparso dall’agenda il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia del 2011. Nessuno ne parla più, sembra un evento dello scorso anno, una rivista vecchia dimenticata dal barbiere. La ricorrenza non è ancora stata celebrata, eppure sembra già trapassata. Può essere che le Istituzioni si vergognino e sperino che la nascita dello Stato unitario passi in silenzio, scivoli via dal calendario. Gli italiani del resto se pensano alle Istituzioni hanno un conato di vomito e una voglia irrefrenabile di emigrare. Vederle identificate con l’Italia è una provocazione, un’istigazione alla secessione.
Il 2011 è invece un’opportunità, un’occasione unica per fare la Storia d’Italia, non quella del trio Cavour-Garibaldi-Vittorio Emanuele II con la ruota di scorta di Mazzini e dei plebisciti fasulli che legittimavano i Savoia, ma la Storia degli eccidi nel Sud, delle occupazioni nel Nord, dei cannoni dei regnanti contro i contadini inermi che protestavano per la tassa sul macinato, delle emigrazioni forzate di milioni di veneti e di meridionali per le Americhe, unica possibilità rimasta per non morire di fame. Il 2011 può essere dedicato alla Storia dell’annessione dei popoli italici da parte dei Savoia, della predazione delle casse degli Stati occupati, dal Regno dei Borbone allo Stato Pontificio.
Capitali necessari al Regno di Sardegna, notoriamente con le pezze al culo, per non dichiarare bancarotta, alle centinaia di migliaia di patrioti chiamati “briganti” fucilati da Cialdini con le loro teste mozzate fotografate ed esibite sui giornali dell’epoca. Persino l’Unione Sovietica ai tempi di Krusciov è riuscita a mettere in discussione le menzogne dello stalinismo, in Italia ci si culla ancora nell’idea del Risorgimento e del grido di dolore accolto da Vittorio Emanuele II. Le mafie sono un frutto dell’occupazione del Sud, prima erano un fenomeno fisiologico, con i Savoia sono diventate uno strumento di gestione del potere. Garibaldi disse “Qui si fa l’Italia o si muore“, per fare veramente l’Italia bisogna ripartire dalle sue radici e quindi “Qui si disfa l’Italia o si muore“.
Le piazze d’Italia sono piene di lapidi celebrative delle tre guerre d’indipendenza, di quelle mondiali, alcune anche di quelle coloniali e di quella civile del 1945/46. Da 150 anni siamo in guerra, anche con noi stessi, per affermare un’identità che non abbiamo. Siamo come l’isola che non c’è di Peter Pan: “E a pensarci, che pazzia/è una favola, è solo fantasia/e chi è saggio, chi è maturo lo sa/ non può esistere nella realtà!“, uno Stato che non c’è, visto come greppia o tenuto a distanza con diffidenza. Un’espressione geografica che ospita le tre più potenti organizzazioni criminali del pianeta, indifferente a quarant’anni di stragi in cui lo Stato era complice o assente, con centinaia di morti tra giudici, giornalisti, politici, amministratori pubblici.
Un luogo che sta cadendo a pezzi in cui molte Regioni non vedono l’ora di un liberatorio “Sciogliete le fila” e ritornare ad essere Repubblica di Venezia con i suoi mille anni di Storia, la Repubblica di Genova, lo Stato delle Due Sicilie, Stato legittimo invaso con le armi, o annessi alla Francia da parte della Valle d’Aosta o all’Austria del Sud Tirolo. Non sono ipotesi, ma la cruda realtà. E’ necessario rivedere il nostro passato e dimenticare il “glorioso” Risorgimento per rimanere insieme in una federazione di Stati, simili a quelli pre unitari, ognuno con la sua Storia e la sua autonomia.
Movimento 5 Stelle: se non ci fossero sarebbe peggio
Odiano le Province al punto da volerne la totale abolizione, mentre io penso che – in un ordinamento genuinamente federalista – le Province siano un formidabile baluardo dell’Autonomia Territoriale (ripeto: rivedendo se non rifondando le regole di base del funzionamento della macchina pubblica, che non sono certo quelle attualmente in vigore).
Hanno un programma che ha elementi entusiasmanti di rinnovamento affiancati ad altri che riflettono il peggior statalismo di sempre. In poche parole, contraddizioni non ne mancano ma … ma possono contribuire a migliorare questo stato di m.. In ultima analisi, se non ci fossero sarebbe peggio.
Insomma, io a Domegge andrò a firmare. Certo, per avere il mio voto ne devono ancora fare di strada, troppe cose ci dividono al momento. Ma con questi puoi fermarti a parlare di futuro: magari non è come il tuo, magari credono anch’essi che con la “patrimoniale” si risolvano tutti i problemi, ma intanto non puzzano.
La partitocrazia boicotta 5 Stelle. Ecco i punti dove firmare per consentire al Movimento di Beppe Grillo di presentarsi alle elezioni politiche di febbraio 2013
Firma Day. Le Elezioni nazionali 2013 sono alle porte. Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, il voto potrebbe essere a febbraio, mese tipicamente invernale, storicamente con i massimi quantitativi di precipitazioni nevose. Chiaramente, l’unico motivo valido per anticipare di 2 mesi il termine della legislatura è la volontà precisa di tenere fuori dal Parlamento il Movimento 5 Stelle, cercando di accorciare al massimo il tempo utile per raccogliere le firme richieste per la partecipazione alle elezioni.
Per questo motivo, noi tutti attivisti del Movimento 5 Stelle vi chiediamo di apporre la vostra firma nelle liste dei candidati alla Camera e al Senato durante le giornate “Firma Day”. Troverete i nostri Banchetti per la raccolta delle firme : […]
Cortina D’Ampezzo 22 dalle 9,00 alle 13,00 Corso Italia
Domegge di Cadore 22 dicembre dalle 9,30 alle 13,00 davanti al Municipio
Attraverso la firma dei cittadini italiani, si apre la possibilità per il Movimento 5 Stelle di partecipare alle prossime elezioni politiche del 2013. Infatti, mentre per tutti gli attuali partiti presenti in Parlamento non è necessaria la raccolta delle firme, il Movimento 5 Stelle è obbligato a raccogliere 120.000 firme in poche settimane.
Con l’aiuto di tutti possiamo cambiare l’Italia.
Movimento 5 Stelle Belluno Cadore Feltre [Bellunopress]
PDL & PD: ridicoli e patetici
Adesso che sono qui sul testo – nel titolo non è proprio elegantissimo – posso dirlo chiaro e tondo. Per quelli del PDL non ci sono segreti, anche per il ributtante atteggiamento che hanno avuto gestendo la Provincia di Belluno, ma anche nei confronti di quelli del PD non mi sono tirato indietro. E come se non bastasse, ho dovuto poi dar vita al tag mestra-menistra (per onorare la “organicità” dei due schieramenti). Allora, lo dico:
PDL & PD: letame gli uni, letame gli altri.
E’ vero che, talvolta, fra i contendenti, l’intima natura del letame è diversa, ma in fondo sempre letame è:
Da Epifani a Gotor, i 120 «blindati» che creano imbarazzi nel partito – Tra gli esclusi i renziani Ceccanti e Giachetti. Ma anche Paola Concia
[…] È un dato da cui è difficile prescindere, anche se l’aria che si respirava ieri a Largo del Nazareno non aveva il sapore del nuovo che avanza. E non solo perché Rosy Bindi, al contrario dell’amica Livia Turco che si ritira con stile e senza profferire verbo, ha chiesto la deroga (da lei a Marini, alla Finocchiaro a Fioroni: ecco la lista dei dieci veterani), passando sopra alle critiche e alle ironie e dando ragione alla profezia fatta qualche tempo fa da Veltroni: «Vedrete che un po’ di parlamentari di lungo corso sfrutteranno il passo indietro mio e di Massimo per poi fare capolino e sollecitare la ricandidatura». Non è solo per questo che l’atmosfera in Direzione è pesante e i mal di pancia e le tensioni si moltiplicano. È il listino il vero pomo della discordia. O meglio la quota dei garantiti che finiranno nelle teste di lista, assicurandosi un posto in Parlamento.I «nominati», tra protetti del segretario, esponenti della società civile e capilista, saranno centoventi circa. Un numero elevato se si pensa che Maurizio Migliavacca, all’inizio della riunione, ha spiegato: «In caso di vittoria avremo 400 parlamentari». Tra i fortunati ci saranno l’ex leader della Cgil Guglielmo Epifani, Miguel Gotor, il politologo Carlo Galli e tanti altri. C’è chi aspira, chi sgomita, e chi se ne va sbattendo la porta. Alcuni parlamentari di lungo corso verranno salvati e messi in quota, garantiti per le loro «competenze». Peccato che altri loro colleghi, con una sola legislatura alle spalle e molta più esperienza e preparazione saranno invece fatti fuori perché non hanno un padrino politico. [leggi tutto sul Corriere.it]
Ecco, prima annunciano le primarie parlamentari (di per sé una farsa, le primarie servono per sceglierne uno, non 100 …), poi “derogano” (secondo statuto eh) alle regole per i dinosauri come la Bindi e la Finocchiaro (che si appresta a percorrere, se non ricordo male, la sua ottava legislatura), poi blindano 120 seggi. E non posso neanche dire «Ma andate a cagare» perché la cosa, vista la poc’anzi acclarata identità dei contendenti, non risulta fisicamente possibile.