Carnaval, tosate, Carnaval!
Eh lo so, lo so: la lingua è in continuo, lento ma inesorabile cambiamento. E tuttavia segnalo l’inesattezza affinché il più grande sforzo di mantenere una tradizione si affianchi a quello più contenuto di mantenere l’integrità della propria lingua… perlomeno là dove viene scritta e resa pubblica.
Italianismi a gogo (che è derivato dal francese) ormai parassitano con virulenza l patuà (altro francesismo: patuà sm. (solo sing.) dialetto. Voce dal francese “patois”; parlà par patuà parlare in dialetto.).
Sono finiti i bei tempi nei quali era l’italiano claudicante (di chi, con esso, pensava di affrancarsi dall’ignoranza) ad essere impreziosito da perle memorabili: “Vieni qui che altrimenti ti bagni tutte le ciauze“; “Oggi ci siamo proprio divertiti un grumo” e così via.
Mi raccomando: per il “Carnevale de Loze”… indugiate per qualche anno ancora (la modernità può aspettare).
karnavàl sm. (pl. karnavài) carnevale. Prov. ki ke no le a fàte a karnavàl, le fa de karéśema chi prima e chi dopo, tutti attraversano un periodo di sbandamento. Durante il carnevale ci si vestiva in costume col viso coperto da una maschera, in genere la maschera era di legno, c’erano bravi intagliatori in paese che ne preparavano di belle raffiguranti molto spesso volti dall’espressione cattiva, burbera e aggressiva. Vestiti in maschera, si andava per le case in cerca delle ragazze. Le ragazze invitavano in casa e lì si ballava, si mangiavano le frìtole e si facevano anche incontri interessanti. L’ultimo giorno di carnevale, martedì grasso, l ùltimo de karnavàl, veniva festeggiato con una mascherata generale, ci si divertiva a forsiñà le ragazze e la sera si dava l’addio a questo breve periodo di pazzie andando in giro per il paese avvolti in un lenzuolo bianco con una lanterna accesa, ko n feràl, a piànde l karnavàl. La maschera, spesso un po’ alticcia, se non ubriaca del tutto, girava per le strade gridando con voce lamentosa come se si trattasse della morte di una persona cara: oiùto, oiùto, puóro l mè karnavàl de kuóre, no lo védo pì, espressione di lamento che lascia intendere che dopo la fine del carnevale non ci si diverte più. Dopo questi festeggiamenti, comincia la quaresima, periodo fatto di pensieri tristi e rinunce, è il periodo in cui si riprende il lavoro dei campi, si sentono di più le fatiche, e se l’inverno è stato lungo, anche la miseria.