ESTATI CADORINE- L’incerto destino di una terra privilegiata dalla Natura
di Giuseppe Zanella
Come era bello un tempo vivere costì!! L’età della spensieratezza aveva l’aroma della ginestra e dei ciclamini; l’ottimismo della giovinezza era scandito dal lento e lieto fluire delle stagioni tutte con peculiarità, colori, sapori e sensazioni diverse ma tutte da vivere e da gustare appieno con estasiato stupore, con intima gioia derivante da una Natura qui particolarmente prodiga e generosa. Il clima, diversamente da oggi, era assai differenziato: ai freddi, asciutti e nevosi Inverni facevano riscontro e contrappeso Estati miti con aria salubre e frizzante; le Primavere e gli Autunni segnavano poi il passaggio, la metamorfosi del ciclo vitale dalla riviviscenza della Natura paragonata alla adolescenza al lento suo declino assimilabile antropologicamente all’età senile.
I moduli del vivere quotidiano erano tutti racchiusi nella semplicità agreste, in una economia basata cioè su agricoltura, allevamento del bestiame, pastorizia (poco il turismo delle origini, tuttora languente rispetto a comprensori contermini), ma da tale economia di base la intraprendenza e l’inventiva degli abitanti aveva saputo cogliere insperate opportunità attraverso l’ausilio di forme di mutualità ed assistenza per quel tempo- fine ‘800 – davvero innovative (basti pensare alla monticazione collettiva, alla lavorazione casearia nelle latterie sociali, alle cooperative di consumo e del lavoro). Ad un tale stato di cose, stava però prendendo piede una economia affatto diversa basata su artigianato ed industria dell’occhiale e suo indotto, economia che nel breve volgere di qualche decennio avrebbe del tutto soppiantato il vecchio modo di vivere di una popolazione comunque molto attiva e laboriosa.
La esistenza faticosa e grama di un tempo con la assenza di particolari pretese ed esigenze ma anche la serenità e la semplicità di un vivere ‘raccolto’ ed inclusivo, la socialità di una Comunità chiusa sì ma molto solidale al suo interno, aveva visto, soprattutto a far epoca dall’inizio de secolo scorso, avviarsi una metamorfosi, prima lenta ma via via sempre più veloce e radicale, con la trasformazione di una struttura tipicamente contadina in una struttura industriale moderna ed avanzata articolata sulla produzione di montature per occhiali, lenti, astucci ed ogni altro prodotto a questi attinente. Qui c’era insomma un distretto produttivo che faceva del Centro Cadore una piccola Svizzera dall’economia solida ed avanzata. Con il senno del poi, sarebbe il caso di dire che le ‘voci’ del cuore (l’amore del ‘campanile’ ed il principio della autoreferenzialità ed autostima) ebbero il soppravvento sulle ‘voci’ della ragione.
Pochi furono infatti coloro che ebbero la vista più lunga e non si lasciarono abbagliare da quella che sarebbe poi stata definita “monocultura dell’occhiale”. Quei pochi furono bollati come Cassandre ma il tempo doveva rivelarsi galantuomo ed incaricarsi di far ricredere anche i più ottusi accusatori. Prima l’assenza di valide strutture e la sottrazione di sevizi essenziali, poi la funesta (almeno per noi) globalizzazione e conseguente delocalizzazione del tessuto produttivo, fecero entrare in una crisi irreversibile il nostro peculiare e già ‘prolifico’ distretto industriale, con le conseguenze che sono ora sotto gli occhi di tutti.
A ciò devesi aggiungere la assenza di una vera imprenditorialità turistica, a dispetto delle bellezze naturali di cui la nostra Terra abbonda, e la mancanza (o carenza) di prospettiva e programmazione in un così promettente settore da noi sempre trascurato, diversamente da quanto è stato e viene fatto nel vicino Alto Adige. Il confronto fra quest’ultima realtà e la nostra attuale condizione appare davvero avvilente ed impari.
Ma lasciamo nel sottofondo le analisi socio-economiche per addentrarci in una valutazione “antropologica” dell’oggi rispetto al bel temo che fu. Perfino il clima, dicevamo, ha subito radicali mutazioni: le stagioni non sono più quelle di un tempo, non esiste praticamente più una Primavera ed un Autunno e le rondini non nidificano più alle nostre latitudini. Il bosco avanza fin quasi sulla porta di casa. Ora l’agricoltura è del tutto assente (salvo lodevoli eccezioni, con colture però a carattere intensivo) e latita ormai anche l’industria, mentre langue un turismo ormai d’accatto.
Siamo diventati poveri ma di una povertà ben diversa da quella dignitosa dell’economia agricola di montagna, fino a qualche decennio addietro assai fiorente. Oggi siamo abituati ad un tenore di vita elevato e non sappiamo capacitarci che le cose siano radicalmente mutate, non ci si rende conto della gravità di una crisi epocale che tutto e tutti attanaglia. Urge una resipiscenza ed una presa d’atto di una amara realtà…Io non sono pessimista di natura, credo di essere molto pragmatico e realista e penso che il periodo delle vacche grasse sia, ahinoi!, tramontato forse per sempre. Ed in questo fosco quadro dobbiamo domandarci se la ‘Montagna’ saprà mai reagire ad un così deprimente stato di cose. La Montagna che soffre di più di altre realtà per tutta una serie di fattori specifici, oltre a quelli che tutti ci accomuna.
Ed il nostro guaio maggiore sta nel depauperamento demografico, causa ed effetto ad un tempo di tutta una serie di altri elementi negativi che da tempo inquinano il nostro tessuto civile, sociale, economico, culturale e politico. Per parte mia e per quanto mi riguarda, io resterò sempre molto attaccato alle mie radici e finché avrò l’opportunità e le forze non marinerò mai la mia terra natia! Ad essa proprio non so rinunciare ed una Estate costì mi è semplicemente indispensabile. Spesso mi scopro a pensare: “Come sarà il Cadore fra 10/15 anni se non si adotteranno tempestivi provvedimenti che consentano il vivere in Montagna?” Impressionante appare infatti il declino dei nostri paesi, nella ignavia dei più…
La sera adduce tristi pensieri e porta con sé il riverbero di struggenti nostalgie. Mentre cucino, dalla mia finestra vedo il campanile di Lorenzago, paese cantato dal Carducci, intimo di un mio avo. Alle 20 odo i rintocchi delle vicine campane del mio antico borgo, cui subito fanno da controcanto il concerto serale delle campane del borgo “aprico tra campi declivi che d’alto la valle in mezzo domina”. E’ “l’ora de nuote”, come diceva la mia adorata nonna. Recito una Ave Maria ed una prece per Lei e per tutti i miei cari. Alle 21 mi metto alla finestra della mia camera e, oltre il Gruppo del Cridola, dietro la cengia del Miaron, nel chiarore crepuscolare, fa capolino una Luna piena che illumina di sé l’intera, bellissima plaga.
E’ questa una visione di Paradiso, guardo lo scenario con un cuore gonfio di commozione e ammirazione per un così grande spettacolo ed intanto nasce in me un misto di tristezza e nostalgia: non c’è più l’ottimismo, la spensieratezza e l’aroma di ginestra o di ciclamino, c’è solo la consapevolezza del grande San Paolo sul “tempo che si sta facendo breve”. Ed un dubbio riaffiora: Saprà il nostro Cadore sopravvivere all’attuale dura prova? Che ne sarà di questa mirabile plaga, che la consuetudine ci impedisce forse di apprezzare fino in fondo, nel prossimo futuro? E quanti saranno i nostri discendenti che vivranno fra queste mirabili bellezze?